lunedì 10 maggio 2021

Il desiderio di rivederci

 

Il tempo sgualcisce la foto, ma non stempera il ricordo di lui.
Carlo Crespi, detto Carlén, perché il più piccolo di tredici tra fratelli e sorelle.
Classe 1901, passato indenne attraverso due conflitti mondiali, il lavoro da carbunàt, operaio, giardiniere…
Di fronte al vescovo che a sei anni mi cresimò, con una mano sulla spalla proferì il mio nome con la fierezza commossa che soltanto i nonni sanno.
Nell’irrequietezza dell’adolescenza non disperò di perdermi, lungo i miei silenzi non cessò di sorridermi.
Una volta mi attese, di ritorno da un dolore. Singhiozzando mi abbracciò, quando altri non seppero farlo, per quella forma di malessere domestico così comune che si chiama eccesso di pudore.
Partì troppo in fretta nel cuore della primavera del 1981. Il 10 di maggio, quarant’anni fa. 
Mi lasciò in dono il desiderio di rivederci.



venerdì 6 dicembre 2019

6 dicembre 1999


Adesso i baci dati sono torba
le carezze di frumento e miglio
dal tuo grembo che mi diede forma
a ogni nuovo giorno spunta un giglio.

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mercoledì 12 giugno 2019

Maria Arlati, classe 1905



Contadina, operaia, levatrice bovina.
Casalinga, cameriera, ciclista indefessa.
Allevatrice di bachi da seta,
elettricista, magliaia, filandera,
accomodatrice di morti.

Maria Arlati, classe 1905.
Due guerre, la fame, il lavoro bambino.

Partita un mattino di giugno –
partita di fretta, in punta di piedi –  
lasciando le ore alla pendola
e ammutolite le rose in giardino.

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mercoledì 18 luglio 2018

Addio, amabile tamburino silente

Entrando il venerdì mattina nella stanza delle prove di Eukolia, potevi trovarlo già seduto al suo posto, il tamburo sulle ginocchia, pronto a fare la sua parte. E se passandogli accanto gli tendevi una mano, lui ricambiava con una stretta delicata e ferma, silenzioso e tuttavia parlante, con quegli occhi scuri e un sorriso zen stampato sul volto.

Il suo regalo al gruppo era un battere sonoro dal metro preciso.
Ma soprattutto una presenza umile e pacifica, propria dei grandi spiriti. Di quelli che normalmente ci passano accanto – come angeli, si diceva all’atto del commiato – e della cui grandezza in umanità non ci accorgiamo mai abbastanza; fino a che il vuoto che lasciano, commisurato alla vastità del loro cuore e alla profondità della loro visione, non ci restituisce l’effettiva statura della loro persona.

Dalla cattedra di apparenti fragilità, le grandi anime vengono ad abitare tra di noi per aprirci la strada alla consapevolezza, segnali di svolta verso un’esistenza più essenziale. In silenzio ci richiamano alla sostanzialità del vivere, distogliendoci dall’ingannevole rincorsa alle mille e mille cose che tirannicamente reclama la totalità delle energie e occupa l’intero orizzonte del tempo.

Maestri in umanità, laddove tutti corrono, essi rallentano. Dove tutti s’affannano, respirano. Dove il mondo intero sgomita ed urla, tacciono.

Vorremmo trattenerli oltre, ma essi ci donano un compimento. Ci regalano una distanza che è presenza.

 Il loro nascondimento terreno ha dato il suo frutto di pace, e germoglia, ancora e ancora, seme imperituro, dal grembo della terra che li accoglie.

Addio Luca, amabile tamburino silente. È un onore averti incontrato.
Grazie per essere stato dei nostri: il tuo tamburo ci mancherà.

È di quelli come te, della meravigliosa soavità delle vite come la tua, che Livia Candiani scrive, o così mi piace pensare:

Hanno spalle
leggere ed eleganti
come dopo la prima nevicata
i portatori di pace
entrando seminano
a piccoli gesti celati
fiocchi di silenzio.

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domenica 18 gennaio 2015

Bentornate!

Ritornano a casa dopo un sequestro di cinque mesi le due ragazze lombarde rapite in Siria. Ingenue e generose, erano partite per il desiderio di soccorrere l'infanzia di quel Paese martoriato. Tornano a casa e chiedono scusa per il dolore causato alle loro famiglie e a quanti hanno trepidato per la loro sorte. 
Ad accoglierle, oltre all'abbraccio di molti, che si unisce a quello dei familiari, il coro petulante e sgrammaticato di quanti in questa vicenda vorrebbero soltanto tenere la contabilità. Una massa grigia, di cui è disgraziatamente impastato il tessuto sociale nostrano, che sembra non conoscere slanci o gratuità di alcun genere. Affetta da ritardo emotivo più o meno grave, questa gente non può concedersi di gioire nemmeno per la liberazione di due adolescenti, presa com'è a fare i conticini della spesa.
Bentornate, Greta e Vanessa. Non siete voi a dover chiedere scusa. Lo faccia invece, a motivo delle sue reazioni scomposte, l’esercito dei tristi ragionieri di casa nostra, che tutto e sempre misura sul metro della pecunia e della furbizia. Le schiere del tornaconto, che probabilmente di questa storia avrebbero preferito veder scritto ben altro finale, quello che gli avrebbe consentito di tornare in piazza a far squillare i tromboni stonati dello scontro di civiltà. 
Bentornate, figlie! Ce ne fossero al mondo come voi! Il tempo guarisce dall'ingenuità. Dallo spirito di umanità che vi anima, vi auguriamo, invece, di non guarire mai.
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domenica 9 novembre 2014

La fine dell'estate di pioggia

La fine dell’estate di pioggia ci lascia attoniti per la notizia dei giovani morti. Perché chi muore è pur sempre troppo giovane per morire, e altro tempo vorremmo gli venisse concesso – ma a noi soprattutto –  per una parola che manca al discorso, per un saluto perduto lungo la strada, per un sorriso rimastoci in bocca. Altro tempo, quel tempo che non vogliamo imparare a pesare, altro ne vorremmo, quando invece ci resta soltanto quello del rimpianto e del cordoglio. “Insegnaci a contare i nostri giorni …”.
Quaggiù  la notizia funesta spezza l’aria umida del pomeriggio festivo, pigro come i gelati lasciati a squagliare sulle passeggiate e gli avventori intenti al gioco ai tavoli esterni dei bar. Caduti sul monte, dal filo d’equilibrio della cresta, nell’ultimo sforzo prima della vetta. Caduti forse per poca luce, forse per troppa fretta. Caduti nell’attimo di una presa mancata, lassù, il tempo di un pensiero, l’istante di uno spavento, di un grido che squarcia il cielo pallido e ferma il cuore, frangendo il silenzio e la nube.
Il resto sono braccia, il resto sono occhi. Che la morte è sì di chi muore ma è per chi resta. È la fila degli abbracci di giovani amici che cinge le spalle dei sopravvissuti al dolore, pianto di adolescenti stretti attorno a una fossa. Più di tutto commuove questa verde resistenza alla morte, questo darsi coraggio e forza, senza saper dove attingerne. Più d’ogni altra cosa fanno male e consolano questi corpi acerbi e dolenti che si dicono vicinanza e sostegno.
La vita va oltre, è questo che dicono. In tutti i modi che sappiamo e per vie che sotto la vastità del cielo non intravvediamo. Per uno che cade c’è chi si rialza e riprende il cammino. Domani è già qui. La vita resiste. Deve.

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sabato 10 maggio 2014

Lunga vita alla bellezza




Stasera ArcoBanda è al debutto. Cantori e musici arrivano alla spicciolata davanti al teatro. Qualcuno porta il proprio strumento, altri un plico leggero di fogli con note e parole. Tutti con il proprio fagottino di emozioni. La serata ormai tiepida è di quelle speciali per questo corpo musicale speciale e variopinto, dalle sfumature le più diverse e imprevedibili. Lo muove il desiderio di fare insieme qualcosa di bello attraverso la musica.
La musica è arte antica come il mondo. L’elemento sonoro ha radici profonde nel cuore umano e gli appartiene molto più e molto prima delle specifiche e personali competenze tecniche. Dal pulsare binario del cuore di nostra madre apprendemmo che la vita scorre; e sonorità acquatili ci offrirono per la prima volta l’intuizione di un universo misterioso e sconosciuto fuori da noi stessi e dallo spazio amniotico che ci accoglieva.
In virtù di queste esperienze primigenie, possiamo ben dire che la musica è di tutti e per tutti. E ci indica la via: non negare le differenze, ma svelarne il senso all’interno di un contrappunto mirabile. Non temere la diversità, ma considerarla espressione di una incontenibile polifonia. E sempre scavare, con mitezza e determinazione, per portare alla luce l’essenzialità dell’umano che è nelle profondità di ogni uomo e di ogni donna.
Fare con la musica qualcosa di bello. Che la verità è nella bellezza e la bellezza è verità. Senza scomodare Dostoevskji, l’esperienza del suo potere salvifico è accessibile a chi la ricerchi. La bellezza arriva sempre a destinazione, non lascia mai come si era prima. Non parlo di una bellezza puramente estetica o di una qualche sua manifestazione artisticamente apprezzabile: parlo della bellezza che fa ardere i cuori, che smuove le viscere, talora fino alle lacrime, e ci fa capaci di scorgere una realtà che trascende le apparenze, e rivela luce laddove pareva non essercene affatto.
Succede così, in musicoterapia, che il bello – un po’ come per l’essenziale di Exupéry – sia spesso invisibile agli occhi. Perché bello è il gesto inatteso del battente sul tamburo, la scintilla di soddisfazione che accende lo sguardo, il vortice di gaudio che per un momento consuma nel canto una pena.
Ormai ArcoBanda ha esordito. Cantori e musici tornano con un sorriso alle loro case. La bellezza stasera è passata di qua, viva, pulsante, declinata nei bei nomi di attenzione, emozione, tenerezza, godimento…
Lunga vita ad ArcoBanda!

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mercoledì 31 luglio 2013

Infine la morte giunge improvvisa












Infine la morte giunge improvvisa. E per quanto preannunciata, la morte giunge sempre improvvisa per chi ama. Allora i cosiddetti credenti danno mostra di saperla accogliere serenamente, in vista di un oltre di cui in verità nulla sanno se non la promessa dell'Uno che, avendo amato i suoi, indicò un pertugio nella Tenebra. I non credenti, d'altro canto, altrettanto granitici nei loro dogmi, chiesa tra le altre chiese, reputano che ultima parola sia la lapide. Per gli uni e per gli altri resta l'insopprimibile segno del dolore e del desiderio di riabbracciare l'amato. Dolore e desiderio colmano forse le distanze che gli umani usano porre fra sé e quanti giudicano diversi da sé, quando ancora la morte par loro di là da venire.

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venerdì 26 luglio 2013

Una pacifica bellezza

Giorni di mare. Tornando a piedi verso casa dalla spesa mattutina (un'attività sconosciuta per il resto dell'anno, almeno nel suo aspetto podistico), mi imbatto in un tavolino imbandierato di verde. "Prima il Nord!". Lo slogan abbagliante, a caratteri cubitali, fa risultare piccoli piccoli i due omini addetti alla raccolta firme: via i venditori abusivi dal lungomare!
Soffro di un'istintiva allergia nei confronti di quelli che vogliono mandare via qualcuno. Devo averla ereditata da mia madre che una volta, ero un ragazzo, ebbe l'ardire di chiedere a un vigile urbano della medesima cittadina nella quale mi trovo, quale fastidio dessero quei due ragazzi neri che stava poco gentilmente invitando a sloggiare insieme alla loro mercanzia.
Passando accanto al tavolino la tentazione di porre ora la medesima domanda preme alla gola, ma passo oltre, sospinto dai trentacinque gradi all'ombra e dalla voglia di un tuffo con Luca mio che mi aspetta prima di pranzo.
Poche decine di passi più in là, a compensazione, incrocio una famigliola a spasso in infradito: madre bianca, papà nero e due figlioli adolescenti, color del cioccolato. Il maschietto tiene la mano in quella del padre, che gliela stringe dolcemente facendo dondolare il braccio in avanti e indietro. Poco oltre le donne di casa chiacchierano pacatamente di chissà cosa. Quando mi passano accanto, mi fermo un momento a guardarli di spalle, mentre si allontanano. Con gli occhi pieni di tanta pacifica bellezza, il buffo banchetto degli omini urlatori che vorrebbero per sé i primi posti mi fa persino sorridere.
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lunedì 24 settembre 2012

La fagiana e la coscienza del mondo

Sulla via degli ipermercati, manco a dirlo trafficatissima anche se secondaria, d’un tratto la colonna di scatole di latta rallenta in entrambi i sensi di marcia. A terra, nel bel mezzo della carreggiata, qualche cosa si muove. I veicoli indugiano, dai finestrini abbassati occhi muti si affacciano per poi passare oltre. Che cos’è? Sembra un sacchetto di carta scosso dal vento, del medesimo colore di quello che il panettiere ti dava per portare a casa le michette, quando ancora il pane lo compravi sotto casa e non ti costringevano a bruciare petrolio per andarlo a prendere chilometri più in là.
Avvicinandomi vedo che non si tratta di carta. È un fagiano, una femmina color nocciola, agonizzante sulla pubblica via. Forse colpita da un paraurti distratto, forse dalla doppietta di qualche imbecille in mimetica, ha il corpo per buona parte inchiodato all’asfalto. Soltanto il lungo collo è ancora mobile, flessuoso come una vela, e mentre le passo accanto, la fagiana lo solleva e mi guarda. Ha occhi parlanti, starei per dire “umani”,  se non fosse che è proprio a causa dei bipedi “umani” che ora quegli occhi si ritrovano a terra su una carreggiata. Occhi che pongono una domanda cui non so rispondere. È la medesima domanda di sempre, quella posta, in tutti i tempi e a tutte le latitudini, da ogni essere che cerchi una risposta al dolore innocente e si faccia voce della coscienza stessa del mondo.
Anch’io me ne vado, lasciando lì a morire una volta ancora quella coscienza, fuori dalla quale non resta altro che un mondo finto quanto feroce.
Fatto di terre divorate dalla cementificazione bipartisan, strangolate dagli scarichi notturni nell’aria e dall’immondizia buttata nei fossi. Ammorbato dalle luci fatue degli centri commerciali e dallo sferragliare senza posa delle intontite comitive che vi si recano in quotidiano pellegrinaggio.
Via da quegli occhi è un mondo asfittico, disperato, perennemente in fuga dalle proprie radici. Altrimenti non si spiega l’anacronistica pretesa di praticare la caccia in un territorio che di tutto avrebbe bisogno, tranne che di dichiarare guerra agli uccelli.

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sabato 16 giugno 2012

Cardiologia


...
“Ma il cuore batte sempre, papi?”.
“Sempre, Luca”.
“Non si ferma mai?”.
“Mai, Luca”.
“E se si ferma?”.
“Allora moriamo”.
“Però quando siamo vecchi, vero papi?”…

Quando il volto delle persone si è così impresso nei nostri occhi, che un cuore terrestre non basta più a contenere tutto l’amore.


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sabato 26 maggio 2012

Dipende

Sotto un cielo di nuvole e sole un giovane uomo dalla pelle scura cammina sul ciglio della statale che taglia in due la zona industriale. Ha uno zaino di poche cose sulle spalle e pensieri a passo d’uomo, in questo traffico che avanti e indietro sembra non conoscere sosta né pudore. 
Certe volte mi domando come facciano gli arbusti spontanei cresciuti appena oltre il fosso. O certi alberelli esausti messi a dimora nelle aiuole polverose delle rotatorie a sopportare il persistente frastuono e i continui spostamenti d’aria malata. O le ingenue famigliole di papaveri, cui maggio, anziché l’abbraccio di un campo di grano che matura quieto, ha riservato la morsa ininterrotta di una carreggiata. 

Guidando piano, scruto le macchie rosse di papaveri in avvicinamento: fanno parte della segnaletica stradale, ultime indicazioni di Via della Bellezza, disperate sentinelle sull’orlo del precipizio, messe lì a scongiurare la nostalgia dei passanti, che si fermino, almeno per uno sguardo.

Il giovane uomo dalla pelle scura adesso ha un papavero in bocca. Battendo le fabbriche per un lavoro a ore, ha appena sorriso di fronte all’ennesima porta subito richiusa. Nel tempo dello spread, ferocia di clacson reclama che passi oltre veloce, voracità di occhiate lo vorrebbe invisibile o altrove.
Procedendo in direzione opposta, nella fiumana dei motori urlanti, gli passo accanto con gli occhi. Chissà dov’è sua madre – penso. Chissà come lo vide quand'era bambino. E chissà se ancora lo vede, socchiudendo le palpebre. Perché si può vedere anche senza guardare, mentre il più delle volte si guarda, ma senza vedere. È questione di sguardi.

Il giovane uomo mi sfila a lato, la linea del collo un po’ flessa, come il gambo del fiore che stringe tra le labbra. Improvvisa riconosco la spinta umida che mi sorprende gli occhi, inattesa come l'onda che scompiglia la bonaccia marina.

Per singolare coincidenza la radio inizia a mandare una bella canzone di qualche anno fa. Dice che “Depende: de segùn como se mire todo depende”. Tutto dipende dagli occhi.
Canticchiando il motivo, i miei ora si attardano a mangiare papaveri.

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domenica 15 aprile 2012

Omaggio al Titanic















La prima classe costa mille lire
la seconda cento
la terza dolore e spavento
e puzza di sudore dal boccaporto
e odore di mare morto...

(Francesco De Gregori, Titanic).

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giovedì 22 marzo 2012

E tu, sei vivo o sei morto?












Intossicati dall’inesauribile argomentare mediatico su spread, bot, ripresa, ripresina e ricaduta, rischiamo di lasciar passare sotto silenzio fatti gravissimi, un po’ perché distratti, un po’ perché disturbano. Come il pluriomicidio nella scuola ebraica di Tolosa. Bambini e un insegnante massacrati mentre entrano in classe. Un padre e i suoi figli. In un momento annientate relazioni, pensieri, sentimenti, progetti per il futuro. Tutto finisce nel buco nero di una mente folle, “avvelenata” da un’ideologia malata, nel contesto di una società allo stremo delle energie spirituali. Sul selciato, ancora una volta, resta il grido delle vittime, delle vittime di tutte le latitudini, a chiederci conto dello stato di salute del nostro personale spirito di umanità.

Rilancio un bell’intervento dell’amico torinese Enrico Peyretti. Parole come le sue pesano tonnellate nel vaniloquio quotidiano di cui si abbevera il mondo.

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Tolosa: la vita è comune
Enrico Peyretti, 20 marzo 2012


Ho visto di nuovo che le razze non esistono. Ho visto il ragazzino ebreo, a Tolosa, con la kippà, che piange i bambini uccisi, appoggiato al petto di un uomo che, a capo chino, gli tiene delicatamente la faccia tra le mani. Un braccio di qualcun altro è posato sulla spalla del ragazzo. Si sente il suo pianto, il singhiozzo che lo scuote. Ha l'età millenaria del suo popolo. Ho visto in lui il popolo immenso delle vittime, da tutte le tribù della terra.
Ecco perché le razze non esistono: perché il pianto e il riso sono uguali in tutte le lingue e le culture; perché il dolore e la gioia, coi motivi più diversi, sono uguali in tutti i petti umani, e lo capiscono anche gli occhi di un cane che ci guarda. La vita è comune. Chi uccide lo fa perché è morto: qualche idea morta lo ha avvelenato. Dovremo riportarlo in vita, con tutta la necessaria fatica. Il "non uccidere" è il felice comandamento di vivere. E' uccidere anche fabbricare armi di distruzione e di dominio, perché la vita è unica, non è divisa in razze, né biologiche né spirituali.
Nessuna religione ha il monopolio della religione. Nessuna verità è tutta la verità. Nessun popolo, nessuna cultura è l'umanità, e non esiste primato né superiorità tra gli umani che cercano umanità. Le razze e le barriere culturali sono come un centimetro di statura, o il colore del vestito. Sotto, dentro il vestito c'è sempre un essere umano, aperto o chiuso agli umani.
Solo questa è la differenza, questa sì, questa è il problema. Ogni vittima ce lo grida di nuovo: sei umanità aperta o umanità chiusa? Sei armato o pacifico? Sei vivo o sei morto?

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