Sulla via degli ipermercati, manco a dirlo trafficatissima anche se secondaria, d’un tratto la colonna di scatole di latta rallenta in
entrambi i sensi di marcia. A terra, nel bel mezzo della carreggiata, qualche
cosa si muove. I veicoli indugiano, dai finestrini abbassati occhi
muti si affacciano per poi passare oltre. Che cos’è? Sembra un sacchetto di
carta scosso dal vento, del medesimo colore di quello che il panettiere ti dava
per portare a casa le michette, quando ancora il pane lo compravi sotto casa e
non ti costringevano a bruciare petrolio per andarlo a prendere chilometri più
in là.
Avvicinandomi vedo
che non si tratta di carta. È un fagiano, una femmina color nocciola, agonizzante
sulla pubblica via. Forse colpita da un paraurti distratto, forse dalla doppietta di qualche
imbecille in mimetica, ha il corpo per buona parte inchiodato all’asfalto. Soltanto
il lungo collo è ancora mobile, flessuoso come una vela, e mentre le passo accanto, la
fagiana lo solleva e mi guarda. Ha occhi parlanti, starei per dire “umani”, se non fosse che è proprio a causa dei bipedi “umani”
che ora quegli occhi si ritrovano a terra su una carreggiata. Occhi che pongono una domanda cui
non so rispondere. È la medesima domanda di sempre, quella posta, in tutti i
tempi e a tutte le latitudini, da ogni essere che cerchi una risposta al dolore
innocente e si faccia voce della coscienza stessa del mondo.
Anch’io me ne vado, lasciando lì a morire una volta ancora quella
coscienza, fuori dalla quale non resta altro che un mondo finto quanto feroce.
Fatto di terre divorate dalla cementificazione bipartisan, strangolate dagli scarichi notturni nell’aria e dall’immondizia buttata nei fossi. Ammorbato dalle luci fatue degli centri commerciali e dallo sferragliare senza posa delle intontite comitive che vi si recano in quotidiano pellegrinaggio.
Via da quegli occhi è un mondo asfittico, disperato, perennemente in fuga dalle proprie radici. Altrimenti non si spiega l’anacronistica pretesa di praticare la caccia in un territorio che di tutto avrebbe bisogno, tranne che di dichiarare guerra agli uccelli.
Fatto di terre divorate dalla cementificazione bipartisan, strangolate dagli scarichi notturni nell’aria e dall’immondizia buttata nei fossi. Ammorbato dalle luci fatue degli centri commerciali e dallo sferragliare senza posa delle intontite comitive che vi si recano in quotidiano pellegrinaggio.
Via da quegli occhi è un mondo asfittico, disperato, perennemente in fuga dalle proprie radici. Altrimenti non si spiega l’anacronistica pretesa di praticare la caccia in un territorio che di tutto avrebbe bisogno, tranne che di dichiarare guerra agli uccelli.
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