giovedì 19 maggio 2011

La felicità si chiama Eugenio













Le dieci del mattino sono passate da una decina di minuti al Centro presso il quale lavoro da qualche tempo come musicoterapista. Dopo l’abituale attività di gruppo con cui inizia la giornata, decido di trattenere nella stanza di musica, per una seduta individuale, un giovane dal viso solare, affetto da sindrome di Down.
“Eugenio, vuoi stare ancora un po’ qui a suonare con me?”.
Faremo un po’ di quello che si chiama “dialogo sonoro”: provare a comunicare utilizzando il suono e il ritmo al posto delle parole, talora difficoltose, sovente inaccessibili. Allestisco lì per lì una sorta di batteria di percussioni costituita da due bidoncini con coperchio di plastica. Faranno da grancassa, una per me e una per lui. Ai lati, per completare il setting, su altrettante seggiole, piazzo due tamburelli. In tutto, quindi, avremo a disposizione sei strumenti, considerando che anche le sedie suonano. La batteria è pronta e “i batteristi” sono già operativi. Con i due battenti che ha tra le mani, Eugenio inizia ad assaggiare le percussioni. Il suono è cupo, profondo. Lui è serio, un po’ emozionato, anche se non è la prima volta che suoniamo da soli.

Qualche tempo fa, una mattina che, durante il lavoro di gruppo, lo avevo visto insolitamente mogio, ci incontrammo sulla tastiera del pianoforte. Io mi occupavo del precipizio dei suoni gravi, Eugenio, alla mia destra, dello scintillio degli alti. La delicatezza con la quale sfiorava i tasti bianchi e neri dello strumento mi colpì. Forse un po’ intimidito, si era lasciato presto andare al fluido dell’ improvvisazione, perlustrando lo spazio melodico e armonico con intenso e visibile piacere, e proponendo un piccolo tema che conservo nella memoria del registratore.

Ma eccoci qui oggi, seduti a poche decine di centimetri, l’uno di fronte all’altro. Senza necessità di parole, le distanze si accorciano ulteriormente e quello che è essenziale può fluire fra di noi in tutta libertà.

I suoi primi attacchi - dicevo - sono cauti, come di uno che a piedi nudi provi a camminare su un terreno sconosciuto. Via via, il passo si fa più franco, e la ponderazione iniziale lascia il posto a proposte più audaci per colore e decise per intensità. I disegni ritmici, così astratti e cangianti, come nuvoloni bianchi portati dal vento veleggiano qua e là, combinandosi fra loro e consolidandosi talvolta in figure più immediatamente leggibili. Fino a che una folata improvvisa sul tamburo rompe di nuovo le fila e tutto gioiosamente si rimescola. Dal kaos alla forma e dalla forma di nuovo al kaos. È la dinamica dell’atto creativo a richiedere questo tragitto ellittico che sempre torna per compiersi di nuovo. Come il giorno e la notte, la veglia e il sogno. Forma e kaos: l’incanto dell’una non potrebbe esistere senza l’insondabile mistero dell’altro.

Sto in ascolto delle profondità di Eugenio, le accolgo per quel poco o tanto che esse riescono a schiudersi ai miei orecchi e ai miei occhi. Le inseguo in questo girovagare fragoroso solo apparentemente privo di meta. Mi ci immergo immobile, come da ragazzo quando me ne stavo seduto su di un masso nella frescura del torrente che allietò le estati dei vent’anni. Le acque di Eugenio mi raggiungono, mi circondano, mi abbracciano, mi oltrepassano. Imitandone il tratteggio imprevedibile, gli offro una conferma del mio appoggio assoluto, gli faccio sapere che sono al suo fianco, che non lo giudico, che lo sostengo senza condizione alcuna.

La soddisfazione cresce. Eugenio inizia a vocalizzare. Brevi gorgheggi, tra il canto e lo scoppio di riso, con quel timbro gutturale tutt’altro che sgradevole. E intanto sorride largo, con le labbra, con le guance, con gli occhi. La voce accompagna il gesto delle mani, ne ribadisce il tocco robusto, anticipa nuove sagome acustiche. Ma anche il movimento del tronco, la danza giocosa delle spalle.

Pian piano conduco la seduta al suo compimento. Eugenio mi segue. Avendolo fatto io, anch’egli depone i suoi battenti sulla grancassa.
Non parlo. Sorride. Penso che sia giunto il momento di congedarci.
Ma senza aspettare cenni di assenso, prende fra le mani il tamburo che sta alla sua destra e inizia ad accarezzarne la pelle con la medesima devozione con cui sfiorò quella prima volta i tasti del pianoforte. Si mette comodo, appoggiandosi allo schienale e incrociando le gambe sulla sua seggiola. Un vero buddha, seduto proprio di fronte a me. È il segnale che la seduta deve continuare.

Così prendo anch’io il tamburo fra le mani e inizio a seguirlo. Al posto di due battenti, adesso abbiamo a disposizione venti dita, che accarezzano, battono, sfregano.
Grattano. Eugenio sta grattando con le unghie la superficie sonora del suo strumento, con movimenti rapidissimi del polso, prima con una mano sola, poi con entrambe. E ride, come se stesse facendo il solletico a qualcuno e ne fosse gustosamente ricambiato. Il godimento è altissimo, cresciuto con l’andare dei minuti e innescato in maniera irrevocabile dal contatto diretto delle mani con il tamburo. Che adesso è un gattino da coccolare. E ora è un magnifico cappello, mentre Eugenio lo solleva sopra la testa, tenendolo con le due mani ai lati del viso: un re con la corona, un’anima santa con la sua aureola. Che in un attimo però diventa ombrello, quando tutt’e due iniziamo a tamburellarci sopra, simulando la pioggia con le quattro dita libere, mentre i pollici offrono stabilità ai nostri fantastici copricapo.
Ridiamo, mentre l’acquazzone va scemando. Una sbirciatina all’orologio mi avvisa che sono passati quaranta minuti dall’inizio della seduta. Quaranta minuti di purissima felicità.

Guardo questo ragazzo sorridente, con una sindrome di Down nella carne e lo spirito leggero e raro di un monaco zen. Eugenio, felicissimo Eugenio.
Mi viene da piangere. Mi viene da ridere. Sulle mie ginocchia, appoggio le mani, aperte all’insù. Lui ci mette le sue.
“Sono molto contento di aver suonato con te”. Sono le prime parole che ci diciamo da quasi un’ora. “Dico davvero. Sono molto contento”.
“… Sì… Giorgio…”. Ride forte, una volta ancora. Il suo modo per dirmi grazie. Lo abbraccio, per dirgli il mio.

***

2 commenti:

Sara ha detto...

Ciao Giorgio, avrei voluto che anche Dario avesse fatto questa esperienza!

Anonimo ha detto...

grazie, questa mattina mi hai dato un gran paio d'ali di speranza: Dio è davvero tra noi, se queste storie di comunicazione d'amore sono possibili francesca