domenica 26 giugno 2011

Kairos Palestina












Mercoledì scorso ho avuto la fortuna di essere presente ad una conferenza di don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale di Pax Christi, che ha illustrato il documento “Kairos Palestina”, un documento redatto da un gruppo di teologi e vescovi di diverse confessioni cristiane, tra cui il patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah. Un messaggio scritto “dal cuore della sofferenza dei cristiani palestinesi” per chiedere la fine dell'occupazione israeliana e la riconciliazione tra i due popoli.

Quella palestinese è la vicenda dolorosissima di un popolo che nell’arco di quasi settant’anni si è visto privare della maggior parte del proprio territorio e della libertà di muoversi sopra di esso. È storia di demolizioni forzate di case, di esproprio di campi, di impossibilità a coltivare sulla propria terra, a pescare nel proprio mare. Un popolo massacrato dalla impressionante forza militare israeliana (si pensi all’operazione “Piombo fuso” del dicembre 2009 che fece migliaia di morti in pochi giorni di cui quasi cinquecento bambini), contro la quale si risponde lanciando pietre, qualche missile rudimentale, o con la forza della disperazione di chi decide di farsi esplodere in territorio israeliano.

Ascoltando la narrazione dell’altra sera, mi chiedevo come sia possibile che gli Ebrei, così provati dalle vicende più buie del secolo scorso, siano capace ora di atrocità simili nei confronti di un altro popolo. E risuonavano alla mente le parole lette in un libro sull’ebrea olandese Etty Hillesum, internata prima nel campo di concentramento di Westerbork e da lì salita su un treno per Auschwitz e mai più tornata. Scrive così Etty:

“So che coloro che odiano hanno buone ragioni per agire così. Ma perché dobbiamo sempre scegliere la via più facile e a buon mercato? La dura esperienza mi ha mostrato che ogni singolo atomo di odio aggiunto al mondo lo rende un posto ancor più inospitale. E credo anche, forse infantilmente ma caparbiamente, che la terra diverrà nuovamente un luogo migliore soltanto grazie all’amore che l’ebreo Paolo descrive ai cittadini di Corinto nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera”.

E ancora:
“E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e comprensione – allora non siamo una generazione vitale.
Certo che non è così semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri colpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà”.

(Da: Patrick Woodhouse – Credo in Dio e nell’uomo, Etty Hillesum – pp. 117; 115).

***

Nessun commento: