martedì 10 maggio 2011

A Carlino, ultimo di tredici



















Fratelli. Ultimo di tredici tra fratelli e sorelle, nove femmine e quattro maschi.
Carlo Crespi, fu Cesare, classe 1901. Detto Carlino per via di quella lunga fila di nomi che lo precedeva. Di nomi, e scarpe e maglie di lana che non bastavano mai per tutti. E chi si alzava dal letto per ultimo restava mezzo vestito e facilmente scalzo. Tredici fratelli che a ricordali uno dietro l’altro ci si perde.

Aristide, detto Rìstech, che guidava il calesse dei latifondisti del paese. Mussolini non gli restituì mai un figlio di vent’anni andato a morire in Russia. E lui già vecchio, dalla sedia accanto all’uscio, si ostinava a scrutare il rettilineo che giunge alla fermata del tranvai, pronto a correre incontro a quel figlio prodigo che invece non tornò.

Marién, che sposò gente su, gente di Cantù, e andava a stare bene, perché avevano una trattoria.
Adele, chiamata Delòta. A spaventarla sulla porta di casa si ritrovava ogni volta quel figlio sempre affamato: briglia ben stretta in una mano, l’altra alzata a mezz’aria col dito indice a minacciare la madre di portarle il cavallo dentro casa se dalla credenza non avesse tratto un pezzo di pane bianco.
E poi il volto magro della Angela, la sorella maggiore, la prima nata fra tutti. Di tempra ferrigna, si era ritrovata quel nomignolo da supereroe dei fumetti, che alla lunga aveva soppiantato il nome di battesimo: per tutti era la Ragnòta. Nomen omen, forte e longeva. Una donnina minuta che invecchiò soavemente fra il banco ovattato di una merceria e un salon de coiffeur a conduzione familiare ricavato tra le mura domestiche. Dove negli ultimi tempi faticava a riconoscersi quando incrociava la propria immagine moltiplicata dall’inevitabile gioco di specchi del negozio. Visse così a lungo da veder morire tutti i fratelli e le sorelle più giovani di lei: Tugnìna, Giűsepina, Lűisina, Celsi, Batista… suoni di una scala dodecafonica di cui qualche nota, per quanto mi riguarda, è caduta nell’oblio. Comunque dodici come i dodici apostoli. Più uno, un suono aggiunto. Il più piccolo solo perché ultimo giunto. Carlino, appunto. Mio nonno.

Lavorò da carbonaio, mezzadro, operaio, custode, fabbro. Cadregàt nella chiesa parrocchiale. Negli anni settanta fu giardiniere presso notabili. Alla scaramantica signora, ormai anziana, riferiva di aver veduto la civetta volteggiare attorno alla grande villa. E per essere più persuasivo, sul far della sera, dal giardino ne imitava il verso malaugurante: murì-murì.
“Se vuole chiamo mio figlio che viene col fucile”.
“O sì, per amor di Dio, gli dica di far presto”.
E così, per via dell’inesistente rapace e della doppietta di mio padre, piccioni e fagiani finivano nell’allegro carniere di famiglia. La signora rincuorata ringraziava generosamente. E la civetta taceva, almeno per un po’.

Passò attraverso due guerre mondiali, Carlino. La prima la schivò perché troppo giovane. La seconda perché unico sostegno economico della famiglia. Si sposò infatti e fece figli e figlie, tre anziché tredici. Nascose la fede nuziale al Duce che la reclamava. Portò a Natale il cappone al parroco e il tronco del gelso al podestà. Seppe la fame e la paura dei bombardamenti.

Negli anni del boom economico si sentiva un signore, un sciurèt. La domenica – non c’erano santi – vestiva della festa. Giacca e cravatta, la funzione al mattino e il pomeriggio al circoletto. D’estate mi ci portava, qualche volta. Uno stanzone dal pavimento rosso mattone dove fumavano tutti. Carlino ci stava dentro per ore, le carte da gioco in mano e l’immancabile sigaretta pendula fra le labbra, semichiuso l’occhio stuzzicato dal fumo. E il bicchiere di Vezzani pieno sino all’orlo, portato alla bocca con devozione tra una partita e l’altra, lentamente, come se dicesse messa.

Studiò quanto basta a scrivere e leggere il proprio nome, ma la volta che mi persi si disperò. Al mio ritorno non imprecò, non disse nulla. Solo abbracciò forte i miei diciott’anni magri, a lungo, mentre piangeva, mentre piangevo.

Son trent’anni e pare un giorno, un turno di veglia nella notte. Il desiderio di reincontrarlo non mi ha mai abbandonato. Partì in un pomeriggio assolato, il dieci di maggio dell’Ottantuno.

***

2 commenti:

Anonimo ha detto...

che dire.. complimenti!
bello senza dubbio il racconto, ma piacevolmente sopresa del lessico.
elisa

Paola ha detto...

Leggo con indicibile e dolorosa emozione questa tua traccia di racconto e di ricordo e mesta saluto mia zia,che questa sera,come dice don Romeo, è andata a trovare Colui che ha tanto cercato....