lunedì 1 dicembre 2008

Puer natus

Sono arrivato a casa oltre le dieci di sera: due ore e mezza per percorrere una trentina di chilometri in tutto, la tangenziale est di Milano praticamente a passo d’uomo a causa di un’improvvisa nevicata che pare aver colto di sorpresa il personale dei mezzi spazzaneve. Verso le diciannove e trenta, sul pavé di via Palestro, ai primi fiocchi caduti una ciclista era miseramente scivolata, complici il fondo gelato e la rotaia del 29. Serataccia.
Eppure la neve aiutava, se non a far presto, a far le cose lentamente. Uno spontaneo elogio alla lentezza così inusitato da queste parti, dove ognuno ormai sfreccia e sgomita da mattina a sera per farsi largo, per arrivar prima (possibilmente prima degli altri). Il tutto nel nome di un dio nervoso e impaziente.
Con la neve no: inutile provare a forzare la marcia, i pneumatici pattinano ch’è una bellezza senza che ci si sposti di un metro. Una sorta di briglia imposta al mezzo meccanico da chissà quale vetturino, una forma di esercizio di cammino consapevole: Inspiro: sto guidando; Espiro: sorrido alla neve. O qualche cosa del genere, o niente di tutto questo.
Nevica quanto basta a ricoprire il cortile di casa, in una maniera così perfetta da far male al cuore dover profanare quella quiete bianca, mettere il battistrada laddove nessuno è ancora passato, violare il torpore dei ciottoli, il letargo pesante delle erbe. Freddo tosto. Meno male che avevo spostato le piante nei vasi sotto il balcone, vicino al muro del locale caldaia, e provveduto a imbacuccare con teli di plastica l’alberello d’olivo piantanto vicino al muro di cinta non più d’una settimana fa.
Cena fuori orario, con il sonno addosso.
Quando nevica – penso mentre mangio – te ne accorgi senza vedere, ancora stando nel letto. Tutti i rumori arrivano ovattati dalla strada, in proporzione a quanta ne viene giù. Nell’85 nevicò così a lungo che lo sferragliare dei mezzi era sparito del tutto. Per strada non si girava proprio e qualcuno aveva pensato bene di inforcare gli sci da fondo per recarsi al lavoro. Non s’era mai visto nella bassa Brianza, così altri gli ridevano dietro: non siamo mica a Cortina!
Allora scattai delle foto in bianco e nero che ancora conservo: tra i viali del cimitero ripresi le insolite acconciature di alcuni cristi tombali, le cui nudità immobili, bizzarramente rivestite dalla copiosa nevata, offrivano il senso di una carezza affettuosa sulla mestizia alla quale quei bronzi facevano da guardia. Ho inquadrature preziose di amici giocosi nei loro sorrisi di neve; mia madre col suo collo di pelliccia che sa di menta; mia sorella con un ombrello rosso davanti alla scuola con la sua amica del cuore. E ancora la vecchia casa dove abitava una anzianissima prozia. Lei non c’è più, la sua casa è stata abbattuta e anche l’amichetta di mia sorella è partita senza preavviso.
Stamani le cronache raccontano di due marocchini che, entrati nel cuore della notte in una cabina telefonica per ripararsi dalla neve, hanno trovato il corpicino livido di una neonata chiuso dentro un sacco della spazzatura. A due passi da Palazzo di Giustizia e da una clinica per mamme e bebè. Il resto è un film già visto: le forze dell’ordine che sopraggiungono, la ricerca di indizi, l’attesa dei referti autoptici: un surplus di attenzione giunta irrimediabilmente in ritardo. Come se possa essere di qualche consolazione per qualcuno venire a sapere che la piccola è morta di parto piuttosto che uccisa dall’inverno impietoso. Sempre di freddo si tratta, di neve. Non la neve tenera, contemplata da dietro i vetri di casa, al calduccio; ma quella legnosa dei crocicchi, quella malata e logora dei marciapiedi cittadini. Una neve sorda, pesante, estenuante, anonima.
Neve ancora.
Cos’è nascere e morire in una notte di neve? Cos’è un alito di bimbo buttato in un sacco nero? E il dolore di una madre? Quanto grande il suo abbandono? Quanto freddo nel fondo del cuore?
"Chiamato a sé un bambino lo pose nel mezzo… Se non cambiate il cuore e non diventate come bambini…". Ci sarà mai modo di sintonizzare il mondo sulle frequenze rare della compassione almeno per la vita che sboccia in una notte di neve? Di orientarlo verso un centro dal quale pare aver disgraziatamente distolto lo sguardo? Ci sarà ancora – via da questa poltiglia desolata – una neve altra, immacolata e lenta a scandire ore di gesti affettuosi, placida a cullare i tepori di tutti i bambini del mondo, di tutti i cuori dispersi dal mondo? Che il mondo non si lasci impietrire dalla lenta nevicata dei giorni. E infine conosca un’ora di neve soltanto soave.

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