sabato 5 maggio 2007

Me ne curo

Me ne curo
Un ricordo di don Lorenzo Milani nel quarantesimo della morte

«Che vergogna essere stati contemporanei di papa Giovanni, di don Mazzolari, di don Milani; anzi essere stati loro amici e commensali, e non avere imparato. E non esserci convertiti. Ed essere quelli di sempre. Peggio di sempre! Sì, perché si viene dopo il Concilio, si viene dopo queste lotte furibonde dei poveri contro i ricchi, lasciando soli i primi e fornicando sottilmente (ma non poi così tanto) coi secondi…». Così Davide Maria Turoldo apre la sua prefazione al libro di Neera Fallaci: "Vita del prete Lorenzo Milani", una bella e corposa biografia che anni fa mi ha introdotto al pensiero e all’opera di una delle più grandi figure del cattolicesimo italiano dall’immediato dopoguerra sino agli anni faticosi ma carichi di speranza del Vaticano II.
Impossibile delineare in una paginetta, anche soltanto per sommi capi, la ricchissima personalità di quest’uomo nato nella primavera del 1923 in un’agiata ed agnostica famiglia fiorentina, da una madre di religione ebraica, convertitosi al cristianesimo all’età di vent’anni e subito diventato prete (o convertitosi proprio per diventare prete). E da prete incominciare a vedere la fatica della gente, la condizione di ignoranza e sottomissione nella quale venivano tenute intere classi sociali. Iniziare ad avvicinare i giovani lavoratori, per lo più analfabeti, per i quali non si dava futuro se non lo sfruttamento organizzato nei campi e nelle fabbriche tessili del pratese.
L’idea di offrire un’istruzione gratuita alle persone che lo Stato non aveva nessun interesse ad istruire, iniziata con la scuola popolare di san Donato, venne trapiantana a Barbiana, allorché don Milani nel dicembre del 1954 fu nominato priore di Sant’Andrea, minuscola parrocchia senza acqua né luce, sul monte Giovi, comune di Vicchio di Mugello. Nelle intenzioni delle autorità ecclesiastiche, la sua nomina a Barbiana voleva rappresentare una specie di punizione: confinare fra i monti quel prete un po’ scontroso, che non amava le processioni e le feste patronali, ma che spendeva il suo tempo per istruire i giovani operai, qualunque fosse il loro orientamento politico. La storia è dunque sempre la stessa, in ogni tempo e a tutte le latitudini: a qualche sensibilissima e cattolicissima mente benpensante, quello che vorrebbe essere un puro e disinteressato atto evangelico di dedizione al prossimo, pare una commistione culturale impropria e del tutto sconveniente. Che un prete faccia scuola passi, ma che la faccia a un manipolo di giovanotti indigenti con l’Unità in tasca è una cosa che proprio non sta bene. Il vescovo ne sarà informato! Anziché girare per i campi a vedere il deprimente spettacolo di braccianti attratti dal miraggio industriale, o in bicicletta fra le fabbriche di Sesto Fiorentino a raccogliere la pena di operai minorenni, costretti al telaio su turni massacranti senza tutela alcuna, perché don Lorenzo non se ne stava buono buono, rintanato in canonica, come molti suoi illustri predecessori? I quali, lasciati gli incensieri a penzolare pigramente, usavano mettere il naso fuori dalle sacrestie solo per recare il santo viatico ai moribondi o per benedirne le salme. Suonare campane, condurre processioni, celebrare nozze, cresime e comunioni. Amministrare battesimi ai nati in giornata, presto presto, prima che il limbo ne inghiotta qualcuno fra quelli cagionevoli di natura: questa la vita parrocchiale di mezzo secolo fa, tutta incentrata su se stessa, con il resto del mondo che intanto scappa di mano. E di strada pare averne fatta parecchia da allora, questo povero mondo messo in fuga.
La causa remota di quella diaspora – secondo Milani – risiedeva nel fatto che la Chiesa parlasse un linguaggio incomprensibile ai più, soprattutto ai più giovani. Una religione basata su una sonnolenta partecipazione ai riti, sull’abitudine e sulla coercizione ideologica, pareva non funzionare oltre. Don Milani se ne rese conto ben presto: «Se tu vuoi telefonare a uno e ti accorgi che il filo del telefono è bruciato, non ti intestardisci a parlare ugualmente al microfono e non dici per esempio: "L’unica cosa che conta è parlare di Dio in un microfono: se poi un filo è bruciato, questo è un fatto estraneo alla missione del sacerdote". E invece, con poco sussiego ma con grande praticità e semplicità, prendi un pezzetto di filo e un po’ di nastro isolante e accomodi il telefono e poi parli di Dio». Riappropriarsi dunque della capacità di farsi comprendere nell’annuncio della buona novella: che sia questa una indicazione preziosa, da tener buona anche per il nostro tempo?
Su una parete della sua scuola, aveva voluto far iscrivere il motto americano "I care", ossia: mi sta a cuore, mi interessa, me ne curo: l’esatto contrario dello slogan fascista "Me ne frego". Questa la molla che don Lorenzo era riuscito a far scattare nella testa dei suoi giovani, a san Donato come a Barbiana: istruirsi per affrontare le ingiustizie che tutti i giorni essi subivano nei campi e nelle fabbriche; istruirsi non tanto per colmare l’ignoranza, ma per appianare le differenze sociali. Oggi potremmo forse tradurre: istruirsi per far fronte alla banalità estrema dei messaggi che ci piovono addosso e che veicolano reiterati tentativi di manipolare le coscienze. Perfino oggi, in un tempo dove dio è unico e si chiama mercato, imperanti le forme più estreme di individualismo, don Lorenzo ci spronerebbe a recuperare una dimensione sociale dell’essere persone umane, ad avere a cuore la sorte così spesso dolorosa di tanti nostri simili. In un mondo devastato da violenze e ingiustizie se possibile ancor più feroci di quelle degli anni in cui visse, la provocazione del Priore di Barbiana pare essere incredibilmente attuale.
Non volle che alla scuola popolare avessero accesso soltanto i ragazzi di Azione Cattolica. Non chiese ai genitori adesioni dottrinali all’atto dell’iscrizione: andò invece a cercare allievi anche fra le famiglie povere culturalmente più lontane, dicendo a tutti che "solo l’istruzione li avrebbe resi liberi". E per evitare dolorose divisioni interne, lui, così intimamente legato nel suo ministero alla persona di Cristo, non aveva voluto crocifissi appesi alle pareti della classe.
Morì a Firenze il 26 giugno 1967. Venne sepolto nel cimitero di Barbiana, accompagnato dalla sua gente. Ai suoi ragazzi aveva scritto, sul letto di morte: «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».
Per lui non ci sono cause di beatificazione, né piazze euforicamente inneggianti al pronto riconoscimento della sua santità. Tuttavia è fuor di dubbio che di un santo del nostro tempo si tratti, per quella sua trasparente somiglianza a certe figure tormentate e profetiche dell’antico e del nuovo testamento. Laddove le venga data voce, la sua testimonianza coraggiosa sui temi della solidarietà, della giustizia, della nonviolenza, è capace di diffondere ancora oggi le fragranze intense e inconfondibili dell’evangelo, tanto da indurci a non dubitare del fatto che Dio non abbia ancora rinunciato a visitare il suo popolo.
GC

2 commenti:

Anonimo ha detto...

E' commuovente ritornare e rivivere lo spirito di quegli anni. Grazie Giuseppe Scarabelli

Anonimo ha detto...

...e ci sproni il tentativo di confrontarci continuamente,come faceva lui,sulla ricerca,seria,della Verità...
Paola