mercoledì 27 ottobre 2010

C'è un cuore degno di compassione. Il tuo














Abbiamo compassione del nostro cuore. È un’esortazione o forse un monito, prima di tutto a me stesso. Possiamo averne perché è l’elemento fondante dell’essere su questa terra. È il ritmo primario che tutti ci accomuna, al di là di frontiere e steccati ideologici: ricchi e poveri, colti ed ignoranti, vicini e lontani. Per il cuore siamo soltanto uomini e soltanto donne. E possiamo essere via via figli e figlie, fratelli e sorelle, padri e madri, amici ed amiche.

È solo un muscolo, un semplice muscolo che si apre e si chiude, capace di un’autonoma contrazione. Senza il quale però non saremmo. Non ci sarebbe traccia di ciò che siamo, vale a dire della nostra coscienza di essere. Nessun segno della nostra poca o acuta intelligenza o delle nostre presunte abilità o delle passioni, delle storie di cui si riempie il vivere. Perché non esisterebbe neppure l’impronta dell’altro organo che è sede stessa della persona, della nostra persona: l’encefalo. Così superiore e fragilissimo, non potrebbe sussistere più di tre minuti senza che il cuore vi pompi ossigeno e nutrimento.

Per non dire poi che fra encefalo e cuore c’è una bella differenza. Il primo infatti se la spassa, passando attraverso stati molto eterogenei. Così nella veglia è capace di concentrazione e di svago, ricevendo ed inviando una infinità variegata di stimoli e risposte, i più diversi fra loro. Non ha certo di che annoiarsi: può sperimentare la consapevolezza del dolore più buio e d’altro canto raggiungere le altezze somme della felicità, in un caleidoscopio incredibile di sfumature emotive. E poi il cervello si riposa, nel sonno e soprattutto nell’attività onirica. Il cuore no. Il cuore non dorme mai. È l’operaio alla catena di montaggio, nessuno spazio alla fantasia, nessuna possibilità ricreativa. Soltanto un essere perennemente all’opera. Nessun diversivo, nessun riposo previsto né tantomeno auspicato. Per questo occorre averne cura e compassione. Imparare ad ascoltarlo. Parlargli. Ne otterremo un cuore compassionevole.

Abbiamo pietà del nostro cuore. Sia detto ancora in senso ottativo: possiamo averne pietà.
Un cuore che qualche volta ha battuto forte per la paura di non farcela o per la disperazione di vedere che qualcun altro non ce la faceva. Un cuore che ha dovuto sempre fare i conti con il profondo di noi stessi, così sovente incatenati alle nostre autoimposte richieste di perfezione, che sono sempre figlie di quelle che ci sono piovute dall’esterno senza che magari nemmeno ce ne accorgessimo.

Abbiamo compassione del nostro cuore, qualunque cuore sia. Abbiamone pietà, perché ogni giorno fa del suo meglio per tirare avanti. Perché è l’atleta che regge il testimone e compie diligentemente il suo tratto di cammino, prima di cedere il passo ad un altro. Perché è solo un piccolo anello nella lunga catena dei cuori che ci hanno preceduto e che verranno dopo di noi.

Come i cuori di terra di nostro padre e di nostra madre, chiunque essi fossero o siano, che un giorno ormai lontano non ebbero paura a incontrarsi nella pienezza della loro semplice carne. Che in quell'originario batticuore ci fosse poca o molta consapevolezza, che ci fossero fragilità e inadeguatezze, che cosa conta nell’enorme libro della vita? Saremmo comunque noi, saremmo comunque nati. E ci ritroveremmo qui a ringraziare o a maledire di avere un cuore pulsante. Comunque sapremmo il gusto dolce ed amaro delle cose, potremmo dire di esistere.

Per il nostro cuore, infatti, che è pura macchina, siamo anche pensiero, coscienza, spirito.
In noi – irrevocabilmente chiamati all’esistenza, strappati da chissà quale voragine del non-essere – spira l’alito vitale. E spirerà, di mondo in mondo e di vita in vita, nella maniera che non sappiamo, da quell’attimo amniotico che vide la prima sistole e la prima diastole. Da allora e per sempre.

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