giovedì 12 agosto 2010

Benvenuti nella patria dei megastore















Sul lato est dello sconfinato parcheggio del Centro commerciale il Globo, sta silenziosamente spuntando in questi giorni come un fungo gigantesco l’ennesima megastruttura di cui tutti naturalmente sentivamo la mancanza. Qualcuno sussurra che ospiterà un magazzino Ikea: e che cavolo! finalmente! Ne avevamo soltanto tre o quattro nella zona: ce ne voleva proprio uno sotto casa! O forse che ne faranno un cinema multisala: e perbacco! era ora che ci pensassero: il più vicino era a sette chilometri. Vimercate, Melzo, senza contare Inzago e dintorni. Come sopravvivere a una sì deprimente penuria di cinema multisala?
Insomma, qualsiasi cosa ne esca, ancora una volta, in assoluto silenzio, avranno fatto quello che hanno voluto, in nome del cosiddetto progresso, del lavoro e di altri simili specchietti per le allodole. Quel che conta è che il mattone tiri e che alla bulimica fame di cemento di imprenditori e politici nostrani non siano posti limiti di sorta.

Il territorio sventrato non fa più notizia. Dovremmo portare il lutto come nelle migliori famiglie, ma nessuno lo compiange. Tutto succede sotto i nostri occhi, ma è come se non ci riguardasse.
Benvenuti dunque nella patria dei centri commerciali e delle migliaia di alloggi vuoti, di edifici costruiti senza che ve ne sia richiesta effettiva (o meglio: la richiesta ci sarebbe, ma riguarderebbe l’edilizia popolare di cui in giro non si vede traccia). Case su case, veri e propri loculi a ridosso delle provinciali, spacciati per superattici. Fittissime situazioni residenziali ricavate da ogni triangolino residuale di terreno, sul quale una volta non avrebbero permesso nemmeno di parcheggiarci una roulotte. Oggi invece mastodontiche gru e seducenti cartelloni annunciano ad ogni incrocio proposte immobiliari incredibili quanto altisonanti. Strabilianti prese per il culo che promettono di farti abitare con i tuoi figli “immerso nel verde” quando di verde da queste parti c’è ormai soltanto quello dei portafogli e dei semafori se non lampeggiano. E nessuno che fiati, che osi mandare a cagare in diretta. Perché quando la misura dell’arroganza è tale, il turpiloquio diventa non solo lecito, ma una doverosa forma di resistenza civile.

È perché le parole non hanno più senso. Tutto succede fondamentalmente per quello. Siamo assediati, oberati di parole, ma non ne sentiamo il sapore sulla punta della lingua. Il web, i blog, Facebook e tutto il resto sono ingolfati di parole, parole per lo più inconsistenti, volatili e venefiche come polvere d’amianto. Si parla di tutto, di balle su balle, tranne di ciò che ci riguarda e potrebbe salvaguardare il nostro benessere reale.
Così se la parola “democrazia” avesse un significato e nell’immaginario comune non la si confondesse con la semplice delega in bianco rilasciata ai politici di turno, se ci fossero luoghi di reale partecipazione e pressione democratica, allora non sarebbe tanto facile far spuntare sul territorio di un comune tali fenomeni di calcestruzzo così, dalla mattina alla sera, senza che nessuno sappia né come né perché.

Quante crediamo siano le persone direttamente interessate (molto interessate!), che fanno carte false e smanettano senza posa per far sì che questa foresta prefabbricata seguiti ad espandersi? Sindaci preoccupati di “far quadrare i conti”, assessori ben disposti e i soliti assatanati della betoniera: tutti insieme, giorno e notte, non sanno davvero pensare ad altro. Punto. L’interesse è loro. Noi non c’entriamo. Ci diranno che lo fanno per noi, ci faranno sentire coccolati e preziosi, e per le loro tasche in effetti lo siamo, ma giusto per quelle. Che il massimo della nostra partecipazione sarà entrare a passeggiare lungo le corsie del nuovissimo Leroy Merlin, a prendere un po’ di fresco e comprare inevitabilmente qualche cosa che non ci serviva. Sembra passato un secolo che camminavamo lungo gli argini dell’Adda o andavamo per boschi, la domenica. Qualcuno ancora metteva piede in una chiesa, a sentire una parola differente. Oggi non ci sono parole differenti. Oggi parliamo il penoso linguaggio dell’omologazione a massa di consumatori. Oggi anche il dì di festa si va al Globo, in inneggiante processione verso il nuovo tempio dei tempi nuovi, riponendo fiducia e speranze nel dio dal grande ventre che tutto genera e che naturalmente “ti dà di più”.

Appunto, è il “di più” il problema. Un assillante, nevrotizzante problema. Perché questo “di più” non ha fondo ed ha davvero superato ogni misura di buon senso. C’è piuttosto necessità di un “di meno”, un urgente bisogno di diminuire. La vera crescita ha un nome: si chiama decrescita. E anche cultura, e consapevolezza. La riconosci perché partorisce un sovrappiù di umanità, di civiltà e di autentico progresso. Sa fare a meno del nuovo megastore, per far vivere un prato da lasciare in eredità ai nostri figli e ai loro.

PS – L’altra sera rientravamo da una gita con amici sulle colline dell’entroterra genovese. Una mite giornata trascorsa fra polle d'acque limpidissime, mansuetudine di sorgenti, boschi cangianti nell'alternarsi di nuvole e sole. Nel silenzio delle cose, Luca nostro gioca in pace coi ciottoli dolci del greto. Chi conosce il posto sa di che cosa sto parlando.
Scendendo dalla macchina il tanfo improvviso fa bruciare la gola. La solita pesante aria padana e qualcuno che, facendosi chiamare imprenditore e vantandosi d’essere un uomo del fare, in pieno agosto, all’imbrunire, sversa robaccia svuotando le cisterne della fabbrichetta.
Una donna ci attende affacciata al balcone.
“Che brutto odore” – esordiamo.
“Non sento” – risponde.
“L’odore… è cattivo!” – ribadiamo più forte, credendo che sia una questione di distanza.
“Non sento” – ripete.
Non è un problema acustico, è questione di naso. La nostra interlocutrice semplicemente non sente la puzza, noi che veniamo da fuori sì.
Da domani sarà diverso e torneremo a ballare, irritati e ottimisti, sulla giostrina che ci hanno allestito, dove ogni cosa che ammazza pare in fondo essere così amichevole e inesorabilmente indolore.

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