giovedì 29 ottobre 2009

Foglie morte















Un tempo in autunno cadevano foglie. Da qualche stagione in qua le foglie cadono molto prima. Quelle degli ippocastani, per esempio, seccano già all’inizio dell’estate.
Oggi piuttosto dagli alberi cadono uccelli. Anche quando non siano impallinati da qualche idiota con lo schioppetto e corteo di cani idioti al seguito, pennuti precipitano a terra ammorbati dall’incuria degli umani. Incuria nei confronti dell’aria e dell’acqua. Ammazzati dall’ingombro della specie bipede che avvelena rivoli, campi e granaglie. Un segnale preciso di malessere dell’ambiente, come quello della moria di api, ma nessuno pare preoccuparsene.

Mi è successa una cosa in questi giorni, a proposito di uccelli malati.
Parcheggio nel cortile di casa. Mentre scendo dalla macchina, alle mie spalle un fruscio scomposto seguito da un tonfo: è l’ennesimo piccione che non si rialzerà, il secondo che trovo in giardino nel giro di una settimana. A decine ne ho contati negli ultimi mesi di questi animali che una volta volavano alto, tra il campanile e le gronde e che ora troppo spesso instupidiscono su qualche ramo basso guadagnato a fatica, fino a che non reggono nemmeno più il proprio stesso peso e crollano a terra.

Il giorno dopo il piccione è ancora lì che si trascina sul prato. Tenta in qualche modo di mettersi in piedi, invano. Di alzarsi in volo nemmeno per idea, le ali hanno smarrito la funzione motoria loro propria e goffamente funzionano da improbabili stampelle, offrendo un equilibrio altrettanto posticcio.
La sera scopro un gatto che nell’ombra gironzola attorno a una macchia nera, più infastidito dai fari dell’auto che seriamente interessato alla preda. Il gatto annusa e pare non gradire.

Stamani ridiscendo e con sorpresa mi rendo conto che la “macchia nera” è ancora viva. Se ne sta sull’asfalto, fissa nel feroce tentativo di tirarsi su. Il cielo visto da là sotto dev’essere una terribile tentazione, in questa mattina autunnale di tiepido sole.
Abbassandomi per vedere meglio, mi rendo conto che lo sfortunato piccione ha la schiena rosicata dalle attenzioni feline della notte precedente. Insomma, la bestiola è mezza mangiata e per giunta viva.
A mezzogiorno un moscone verde gli gira attorno, incurante della mia presenza, con un ronzio leggero che separa la vita dalla morte, impalpabile come il respiro di questo piccione in agonia, che mi è cascato fra i piedi per porre domande.
A che serve nascere se poi ci divora il dolore?
E qualcuno c’è che si presti a raccogliere il dolore dei piccoli affinché non vada disperso?
O forse il dolore è come le nuvole, che vengono e vanno?

Come una nuvola certo è questo dolore, che osservo mentre si dilegua.

È quasi novembre, si fa sera presto oramai e un’altra notte è alle porte.
Lasciare che la natura faccia il proprio corso, quante volte me lo sono sentito dire. Che tradotto, in questo caso significa lasciare che un gatto ti si mangi lentamente, vivo e dolente. Questo no.

Mi ripugna fortemente, ma decido di togliere un po’ di dolore al mondo.
Chiudo gli occhi. Un colpo leggero di badile sull’erba umida, uno appena, tanto basta.
Ti chiedo perdono.
Poi una piccola buca scavata nella sera, con pace mia e tua, fratello piccione.
La terra ti sia lieve.

***

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