lunedì 29 settembre 2008

Pro Memoria

















Ho letto nei giorni scorsi la preziosa testimonianza di Shlomo Venezia, greco di origine italiana, deportato da Salonicco a Birkenau ne 1944, appena ventenne. La sua storia è raccolta in "Sonderkommando Auschwitz" (Rizzoli 2008), dal nome del reparto speciale in cui Shlomo lavorò durante la sua permanenza nel campo di concentramento nazista. Il Sonderkommando era il gruppo di persone obbligato ad accompagnare le vittime fin nelle camere a gas e a recuperarne i corpi dopo l'assassinio con lo Zyklon B.
Riporto alcuni passaggi, che possono dare l'idea dell'enormità della tragedia che colpì l'Europa in quegli anni bui, vista con gli occhi di un testimone diretto.
E' un tributo alle vittime, ma soprattutto un contributo offerto alla memoria dei vivi, perché non osino dimenticare. Specialmente di questi tempi, ove farlo sarebbe pericoloso.

I disegni sono di David Olère, pittore francese, sopravvissuto ad Auschwitz, anch'egli arruolato nel Sonderkommando. Rispettivamente, "Lo spogliatoio del Crematorio II", "Dopo la gassazione".

Naturalmente vi invito a leggere il libro per intero.
***

... Mi ricordo invece che un giorno, tra i cadaveri portati fuori dalla camera a gas, c'era il corpo di una donna in­credibilmente bella. La bellezza perfetta delle statue an­tiche. Gli uomini che dovevano metterla nel forno non riuscivano a rassegnarsi all'idea di far sparire un'immagi­ne così pura e tennero il corpo con loro il più a lungo possibile; alla fine furono obbligati a bruciarlo. Penso che sia stato l'unico caso in cui ho veramente «guarda­to», altrimenti tutto avveniva meccanicamente, non c'e­ra niente da guardare.
Anche nello spogliatoio non ci facevamo più attenzio­ne; non avevamo il dirilto di emozionarci. Qualche vol­ta, però, capitava ancora che fossimo turbati o feriti, co­me quel giorno in cui vidi arrivare una donna e il figlio che avevano cercato di nascondersi nel cortile del Crematorio. Facevano parte di un convoglio arrivato da Lodz; millesettecento persone inviate al nostro Crema­torio. Tutto si svolse come sempre: entrarono nella ca­mera a gas, il tedesco gettò il gas e quindi cominciò il nostro macabro lavoro, fino a che il gruppo di notte ven­ne a darci il cambio.
La mattina del giorno dopo, tra le otto e le nove, uno degli uomini, sorpreso, venne ad av­vertirci che una donna e un ragazzino di circa dodici an­ni si trovavano net cortile del Crematorio. Nessuno riu­sciva a capire cosa ci facessero; osservandoli più attenta­mente comprendemmo che appartenevano al gruppo in­viato a morire il giorno prima. Ci scambiammo degli sguardi sconvolti, e io mi avvicinai a loro per cercare di capire. Non so se la donna avesse scalato la palizzata o se si fosse infilata nello spazio tra i tronchi d'albero e il filo spinato: in ogni caso era riuscita a nascondersi con il fi­glio. L’erba alta di quei mesi d'estate aveva permesso loro di sottrarsi alla vista delle guardie, ma si erano trovati di fronte il reticolato di filo spinato, senza modo di evade­re. Il mattino seguente, quando la madre intuì che non c'era via d'uscita, si era diretta verso il Crematorio spe­rando di salvarsi.
Non smetteva di piangere e di ripetere che aveva lavorato a lungo nel ghetto come sarta per i soldati tedeschi e che avrebbe potuto continuare a ren­dersi utile. Il tedesco di guardia si era accorto che c'era un proble­ma ed era uscito nel cortile per vedere di che si trattava. La donna comincio a supplicarlo, ripetendo quello che ci aveva detto. Per calmarla il tedesco le disse: "Ha ragio­ne, signora, vediamo cosa possiamo fare. Mi segua". Lo sapevamo tutti: li avrebbe uccisi appena entrati.
Non mi ricordo se disse loro di spogliarsi per passare prima per la disinfestazione; li uccise tutti e due con un colpo di pi­stola alla testa.
In seguito venne tagliata l'erba alta tra la palizzata e il filo spinato per evitare questo genere di «in­cidenti». Lo fecero i russi, mi aggregai anch'io, volonta­riamente, per prendere un po' d'aria.
Non so cosa quella donna potesse sapere esattamente del luogo dove era stata mandata. Arrivava da uno degli ultimi ghetti della Polonia e di solito i deportati che erano passati dai ghetti ne sapevano più degli altri. Non si facevano illu­sioni: erano sfiniti, psicologicamente distrutti dopo tutti quegli anni nel ghetto. Quando arrivavano si lasciavano guidare verso la «disinfestazione» senza capire veramente, senza nemmeno cercare di capire cosa stava succedendo.



... Un gior­no, mentre testimoniavo in una scuola, una ragazzina mi ha chiesto se qualcuno era mai uscito vivo dalla camera a gas. I suoi compagni l'hanno presa in giro, come se non avesse capito nulla. Come sopravvivere in quelle condi­zioni al gas mortale inventato per uccidere? Impossibile. Per quanto la sua domanda potesse sembrare assurda, era pertinente, perché è accaduto.
Poche persone hanno visto e possono raccontare questo episodio... eppure è vero. Un giorno, mentre tutti avevano cominciato a lavorare normalmente al­l'arrivo di un convoglio, uno degli uomini incaricati di togliere i corpi dalla camera a gas sentì un rumore stra­no. Non era così raro sentire rumori insoliti; spesso l'organismo delle vittime continuava a liberare gas. Questa volta però sosteneva che il rumore fosse diver­so. Ci fermammo per ascoltare, ma nessuno sentì nien­te e pensammo che avesse avuto un'allucinazione. Qualche minuto più tardi ripeté che questa volta era certo di aver udito un rantolo. Facendo attenzione, an­che noi riuscimmo a percepire il rumore, una sorta di vagito. All'inizio i gemiti erano intervallati, poi aumen­tarono fino a divenire un pianto continuo che tutti identificammo con il pianto di un neonato. L'uomo che se ne era accorto per primo si mise alla ricerca del punto da dove proveniva il rumore e scavalcando i cor­pi trovò una bambina di due mesi ancora attaccata al seno della madre, che piangeva perché non sentiva più arrivare il latte. L'uomo prese il bebé e lo portò fuori dalla camera a gas. Sapevamo che era impossibile te­nerlo con noi e soprattutto nasconderlo o farlo accetta­re ai tedeschi. Infatti, quando la guardia lo vide, non sembrò dispiaciuto di dover uccidere un neonato. Sparò un colpo e la bambina che era miracolosamente sopravvissuta al gas morì. Nessuno poteva sopravvive­re. Tutti dovevano morire, noi compresi: non si tratta­va che di una questione di tempo.
Qualche anno fa ho chiesto al caporeparto del più grande ospedale pediatrico di Roma come si spiegava il fenomeno. Mi ha detto che non era impossibile che la bambina, che stava poppando, sia stato isolata dalla for­za del succhio al seno della madre; ciò avrebbe limitato l'assorbimento del gas mortale.

(pp.128-129).











Shlomo Venezia, nel 1944.

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