martedì 24 luglio 2007

Pagelle di cristianità


Il 10 luglio scorso, la Congregazione per la dottrina della fede ha reso pubblico un documento dal titolo: "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa". A parte qualche eminente rappresentante della curia romana, mi chiedo quanti cattolici sentissero la mancanza di un tale intervento.
Che è servito, per l’ennesima volta, soltanto a sollevare un vespaio di proteste da parte di quelle chiese che, stando al documento vaticano, con sottigliezze semantiche sfuggenti alla capacità di analisi del cristiano medio, avrebbero il diritto a chiamarsi semplicemente “comunità ecclesiali”, ma non sarebbero chiese vere e proprie. E questo citando un passaggio della Lumen Gentium che, probabilmente, andava piuttosto verso un reciproco riconoscimento delle chiese stesse.
Il tono particolarmente puntiglioso del breve scritto ha naturalmente provocato reazioni negative all’interno del protestantesimo e non solo in Italia. E risposte che sinceramente mi sembrano sensate e ampiamente condivisibili (riporto sotto un’intervista in merito al teologo valdese Paolo Ricca e un intervento di Daniele Garrone, decano della facoltà valdese di teologia).
Per questo mi sorge un dubbio: che l’ecumenismo reale, al di là delle dichiarazioni di principio della Charta Oecumenica e delle pie intenzioni delle settimane di preghiera per l’unità cristiani, che l’ecumenismo – dicevo – viva realmente ormai nel semplice buon senso dei credenti? I quali – credo -, a qualunque confessione appartengano, proprio a motivo di una provvidenziale e benedetta simpatia fra le parti, divengono via via sempre più allergici a messaggi ex-cathedra di questo tenore. Che, se non rischiassero in maniera colposa quantomeno di raffreddare la fraternità, lascerebbero francamente il tempo che trovano.
Con buona pace dei loro estensori, ai quali va riconosciuta l’incapacità di considerare almeno infelice la divulgazione di una simile missiva proprio alla vigilia della Terza Assemblea ecumenica europea (AEE3), che si terrà a Sibiu (Romania) dal 4 al 9 settembre 2007, con la partecipazione di oltre 1000 delegati cattolici, ortodossi e protestanti.

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INTERVISTA
Paolo Ricca: Il vento di una nuova Controriforma
a cura di Luca Baratto
Roma (NEV), 11 luglio 2007 – Il 10 luglio è stato presentato il documento "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa", della Congregazione per la dottrina della fede, in cui si afferma, tra l’altro, che solo la Chiesa cattolica possiede "tutti gli elementi della Chiesa istituita da Gesù". L’Agenzia stampa NEV ha intervistato in proposito il pastore Paolo Ricca, professore emerito della Facoltà valdese di teologia di Roma.
L'affermazione della "Lumen gentium", secondo cui la "Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica", è una delle espressioni del Concilio Vaticano II che più hanno evidenziato l'apertura verso le chiese non cattoliche. Come giudica l'interpretazione che ne ha dato il documento della Congregazione per la dottrina della fede, sottoscritto da papa Benedetto XVI?

Quell'espressione fu adottata dal Concilio per sostituire quella precedente che recitava "la Chiesa di Cristo è la chiesa cattolica". Il Concilio ha sostituito l'"est" con il "subsistit in" per creare dei maggiori spazi di riconoscimento di altre chiese: affermando che la Chiesa di Cristo "sussiste" nella chiesa cattolica non si escludeva che essa potesse sussistere anche in altre chiese. Fino ad oggi questa espressione è stata interpretata da molti teologi in questo senso non esclusivo. Il documento di questi giorni, invece, ne propone un'interpretazione nuovamente esclusiva, affermando che la Chiesa di Cristo sussiste unicamente nella chiesa cattolica. Un fatto deludente, che ridimensiona le aperture del Concilio, ma di cui certamente non ci si può stupire perché riprende ciò che l'allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, aveva affermato nel 2000 con la dichiarazione "Dominus Iesus".
Quali conseguenze avrà la "Dichiarazione" sul piano del dialogo ecumenico ?
Il Vaticano, naturalmente, continua a dire che non cambierà nulla, che tutto prosegue. Io, francamente, mi sento di dire che dichiarazioni come queste logorano la volontà di continuare il dialogo, soprattutto perché non si sa più su che cosa si dovrebbe dialogare. Il documento, per esempio, ribadisce che quelle nate dalla Riforma protestante non possono essere riconosciute come chiese. Un'affermazione, ben nota, che comunque mina le ragioni del dialogo perché fa venir meno la corrispondenza dei soggetti, nega la dignità dell'interlocutore. Il dialogo ha senso se, almeno in prospettiva, c'è un riconoscimento reciproco delle chiese. Come chiese protestanti siamo stanchi di sentirci negati per quello che siamo e per cui viviamo: perché noi viviamo per essere Chiesa di Gesù. Credo che oggi sia ormai necessario distinguere tra il dialogo ecumenico di base - in parrocchie e monasteri, con sacerdoti e laici – che è fruttuoso, serio e fraterno, e il dialogo con l'istituzione romana che, per così dire, distribuisce "pagelle" di cristianità.
Pochi giorni fa la riproposizione della messa in latino, la reintroduzione della preghiera per gli ebrei "da convertire"; ora la Dichiarazione sulla "Lumen gentium". Dove portano questi segnali?
In modo inequivoco verso una nuova Controriforma. Prendiamo la messa in latino. Il problema non è tanto la lingua latina, ma la riproposizione della messa di Pio V del 1570, pensata contro la Riforma. In essa, tutte le innovazioni liturgiche delle chiese protestanti sono esplicitamente negate. Quella che ci sta proponendo il Vaticano è una nuova Controriforma con le sue due caratteristiche principali: quella di opporsi alle riforme interne al cattolicesimo, tanto a quelle del 1500 quanto a quelle del Concilio Vaticano II, e alle istanze proposte dalle Riforma protestante. Credo che all'istituzione romana vada dato un segnale non solo della nostra delusione, ma anche del pericolo che alla fine ognuno decida di proseguire per la sua propria strada. Resta la volontà di dialogare con i cattolici, ma è giusto sottolineare che l'istituzione romana restringe sempre più lo spazio per un dialogo che forse non gradisce neppure.
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L’impegno ecumenico sarà molto più difficile per i cattolici
di Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di teologia
La qualifica di "comunità ecclesiali" non ci è mai piaciuta e non ci è mai corrisposta. Rinunciando allo "est" ed optando per il "subsistit" il Concilio Vaticano II compiva, dal punto di vista cattolico romano, una apertura. Ed in effetti l’ecumenismo ricevette un notevole impulso. Il documento della Congregazione per la dottrina della fede non dice nulla di inedito, ribadisce con toni perentori cose già note. Perché questa perentorietà? Certamente non c’è in questo momento alcun interesse da parte del Pontefice e della curia a promuovere l’incontro con le chiese della Riforma. Si guarda all’ortodossia, perché è più prossima a Roma, se misurata con i criteri della cattolicità romana, e perché si pensa che condivida con Roma la valutazione negativa della modernità e come Roma avversi il "relativismo". Ma la perentorietà nell’autocertificarsi come la vera Chiesa di Gesù Cristo e nel dare "interpretazioni autentiche" (e quindi disciplinarmente vincolanti per le coscienze dei cattolici) è rivolta innanzitutto al fronte interno, è intesa a mettere in riga quei cattolici – teologi e pastori, laici e religiosi – che hanno considerato e considerano il Vaticano II un punto di avvio, l’inizio di un cammino che avrebbe innovato ancora, allargato ulteriormente, osato più coraggiosamente. L’interpretazione autentica è una normalizzazione del cosiddetto "spirito del Concilio". E’ un freno posto a prassi e teologie diffuse in America Latina come in Africa, in Asia come nel Nord America o in Europa.
Per quanto riguarda noi protestanti, non ci turba che Roma ci dica ancora una volta, e con tono che non ammette repliche, che non siamo chiese e difettiamo di cattolicità solo perché ci manca quello che la confessione romana ritiene essenziale per la cattolicità, cioè le dottrine con cui si autocertifica e misura gli altri a partire da sé. Perché sta tutto qui: si dice "cattolico", ma si intende cattolico-romano. Noi protestanti non abbiamo la successione apostolica nel sacramento dell’ordine, e non ne abbiamo bisogno, perché viviamo della promessa, finora mantenuta dal Signore, che la testimonianza dei profeti e degli apostoli continuerà a far nascere e conserverà la sua chiesa di peccatori perdonati. Noi protestanti non abbiamo il sacerdozio ministeriale, e non lo vogliamo, perché viviamo dell’unico sacerdozio di Cristo. Dicano pure che non abbiamo "conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico", abbiamo la promessa che nel pane e nel vino della Cena del Signore siamo in piena comunione con Lui. Dalla Riforma in poi, sappiamo che la nostra fede è certa perché pone noi al di fuori di noi. Non siamo nulla, ma riceviamo in dono molto di più di ciò di cui siamo trovati mancanti dalla chiesa di Roma.
Questa saccente perentorietà non frenerà il nostro impegno ecumenico. Lo renderà molto più difficile per i cattolici, a cui viene ricordato che la loro coscienza è vincolata ai pronunciamenti del magistero. A loro, ai nostri fraterni e sinceri compagni di strada da tanti decenni, diciamo: rialzate la testa e parlate ad alta voce, senza paura, perché in virtù del vostro battesimo e della vostra fede, la vostra coscienza è resa libera da Cristo e in Cristo.

1 commento:

gabri ha detto...

Qualche tempo fa è morto il padre di una mia conoscente, uomo integerrimo e molto credente. Non gli è stato permessa la sepoltura in terreno consacrato a Musocco, perchè era valdese e quindi non appartenente alla comunità cristiana. Sic! Le cose stanno così! Gabriella