lunedì 28 febbraio 2011

Una comunità scrive al proprio vescovo

Eminenza reverendissima,
siamo un gruppo di appartenenti alla comunità cristiana XYZ in XXYY, a vario titolo presenti in parrocchia, ciascuno secondo le proprie sensibilità, capacità e carismi. Potrà leggere i nostri nomi nel documento allegato a questa lettera.

Le scriviamo in merito alla improvvisa decisione di trasferire il nostro Parroco, don XY, ad altra comunità. Improvvisa almeno per la nostra gente che nel giro di poche settimane si vedrà privata della propria guida spirituale, in un frangente oltre tutto già di per sé piuttosto critico, come quello che vede il sorgere della nuova Comunità pastorale.

Un dispaccio in data 3 luglio 2010 firmato da mons. YZ, con toni da comunicato stampa, mette a conoscenza delle decisioni prese in merito alla Comunità pastorale e, al di là di qualche paternalistico passaggio, in nessun modo pare volersi curare davvero del sentire profondo delle persone che pure saranno interessate dagli effetti di quelle disposizioni.

Il pensiero dei fedeli e forse anche quello dei presbiteri coinvolti, le loro eventuali indicazioni, dubbi o perplessità in proposito, secondo una prassi ecclesiale consolidata ma non per questo lodevole, neppure stavolta sono stati minimamente presi in considerazione. Tutto viene presentato come già deciso e i laici in particolare non devono far altro che prenderne atto, più o meno di buon grado, in un troppo ovvio gioco delle parti che li vede da sempre relegati, nelle cose serie che riguardano la vita della Chiesa, al subalterno ruolo di eterni infanti, senza possibilità alcuna di intervenire in quella che dovrebbe essere una autentica e sincera comunicazione fra cristiani adulti.

E tutto ciò proprio nel tempo in cui, in riferimento alla costituenda Comunità pastorale, l’invito che più frequentemente ci è stato rivolto da parte delle Autorità ecclesiastiche è quello alla “corresponsabilità”. Ci domandiamo che significato dare a questa sollecitazione laddove una comunità di credenti si accorge di non avere in realtà alcuna voce in capitolo su una questione così fondamentale come quella della rimozione del presbitero che da dodici anni la presiede nella celebrazione eucaristica.

È d’altronde lo stesso genere di perplessità che riguarda le modalità mediante le quali il progetto della nuova Comunità pastorale ha preso corpo. Anche lì nessuna precauzionale richiesta di intervento rivolta alla gente o quanto meno ai Consigli pastorali. Tutto viene semplicemente notificato allorché gli aspetti fondamentali sono già stati ampiamente definiti. Nessuno, per esempio, ha ritenuto di dover domandare alle quattro parrocchie prescelte che cosa pensassero del fatto d’esser chiamate a camminare insieme, nonostante alcune, almeno dal punto di vista geografico e forse anche storico, risultino essere piuttosto distanti fra di loro.

Il problema dunque è soprattutto di metodo: perché mai voler decidere tutto a tavolino, senza nulla chiedere ai cristiani che sui territori interessati effettivamente vivono e operano? Si obietterà che i presbiteri erano stati coinvolti nel progetto sin dall’inizio: e perché allora trasferire uno di loro proprio al momento di iniziare il cammino? Che curioso modo di procedere! Non sarebbe stato meglio lasciare che la Comunità pastorale fosse guidata almeno sino allo svezzamento dai preti coi quali era stata pensata?

Ed anche lo scambio incrociato fra i parroci di ZZYY e YYZZ era proprio così indispensabile? Quali i misteriosi “motivi pastorali” che lo esigevano e di cui naturalmente nel comunicato del 3 luglio non si fa menzione? Da parte nostra non siamo così convinti del fatto che l’aspetto relazionale, il semplice orizzonte quotidiano di volti e storie nel quale le persone sono immerse, possa essere troppo allegramente azzerato dalla tanto celebrata “disponibilità evangelica”. In nome della quale ancora troppe volte nella Chiesa si offre l’impressione di prediligere ciò che separa a ciò che riunisce, ciò che mortifica a ciò che allieta.

La domanda in fondo, Eminenza, è una sola. E a questo punto diventa un augurio: che nell’atto di progettare sappiate coinvolgere, sin dalle basi, le persone stesse per le quali il progetto viene pensato. Nel nostro caso, sia per quanto concerne la nascita della Comunità pastorale, sia per quel che riguarda il trasferimento di don Romeo, si sarebbe trattato soltanto di provare ad ascoltare il popolo di Dio, prima che auspicarne l’incondizionata accondiscendenza. Altrimenti l’impressione amara che se ne ricava è che la parola “corresponsabilità” sia un guscio vuoto. E che gli insistiti richiami ad essa siano più che altro conseguenti all’emergenza pastorale dovuta alla ormai cronica carenza di preti (e qualcuno sussurra persino che se preti ce ne fossero a sufficienza, di corresponsabilità non avremmo certo sentito parlare). Laici maturi e corresponsabili non potranno certo tornare a vestire i panni di meri esecutori di direttive e innocui fruitori di servizi religiosi.

Se è legittimo che nelle decisioni riguardanti la vita della Diocesi l’ultima parola spetti a Lei, Eminenza carissima; se l’obbedienza che il presbitero le deve è altrettanto valida e preziosa in un contesto di carità, da un po’ di tempo a questa parte ci sentiamo ripetere che c’è un terzo elemento in gioco che non potrà più essere ignorato: si chiama comunità corresponsabile. Che è sempre comunità di relazioni e di volti. Che è, o prova ad essere, comunione di menti e di cuori. Date dunque corpo e sostanza alla vostra richiesta di corresponsabilità!

In forza di essa, osiamo auspicare una Chiesa che, persino al proprio interno, provi davvero a percorrere strade di genuina convivialità nella maniera di prendere e mettere in atto decisioni. Nessuna forma d’essere ecclesia, antica o nuova che sia, potrà prescindere da una vera comunione fraterna e sororale, che fondamentalmente si traduce nell’ascolto sincero delle ragioni e del sentire dell’altro.

Accanto alla citata “disponibilità evangelica”, anche questo – ci pare – vorrebbe poter essere il “forte esempio di fede” (e di carità) per il quale tutti dovremmo “ringraziare di vero cuore”.

Con filiale e affettuosa parresia.

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