lunedì 15 marzo 2010

Il tempo di seminare la speranza













Le quattro sconosciute maestre che si avventurano nei meandri di un caseggiato abbandonato alla ricerca dei loro scolaretti rom costretti a nascondersi insieme alle loro famiglie, mi fanno pensare alle donne indomite di cui parlano i vangeli, quelle disposte e sfidare le consuetudini sociali e le ordinanze del potere pur di compiere il proprio dovere. Nel caso di Gesù, la sfida consisteva nel recarsi presso il suo sepolcro di buon mattino, con tutto il mesto armamentario per l’unzione del corpo di un malfattore giustiziato. Qui, le stesse donne sfidano le leggi razziali e i codici xenofobi dell’imperante ideologia neoliberista, per provare a portare un po’ di luce nel buio di cuori nascosti nel ventre della terra meneghina.

Onore al coraggio di queste donne. Nel tempo della comune tiepidezza, dell’individualismo più sfrenato, dell’anestesia a qualsiasi dolore che soltanto non ci sfiori, onore a loro. Nel tempo delle donne-copertina, ammirate e idolatrate dalla massa non-pensante e non-amante, onore a loro.
Altre donne. Donne altre. Luce del mondo. Sale della terra. Averne di donne così.

Ad esse consegnare dovremmo le redini della Scuola pubblica, la responsabilità dell'Economia e quelle di un Governo che possa chiamarsi tale, la guida di una Chiesa scesa finalmente dagli altari. Per la loro empatia e il loro cuore innamorato, il mondo, come l’incipiente primavera, stiamone certi, rifiorirebbe.

Una preghiera: copiaincollate la loro lettera, fatela girare. È tempo di seminare la speranza, che una nuova fioritura è alle porte: possiamo non ritrovarci a mani vuote.

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MILANO – VISITA A CRISTINA, ROMEO E ALLE LORO FAMIGLIE

Credevo di aver visto un ventaglio esauriente di posti dove i rom continuamente scacciati si accampano, compreso il girone dantesco della fabbrica crollata di Rubattino tra macerie e topi (20 novembre).

Quello che ho visto oggi è molto, molto peggio.

Un edificio a più piani mai terminato, di cui esistono solo pilastri d’acciaio verticali e orizzontali e solette. Il tutto evidentemente abbandonato da anni.

Dal marciapiede spostando una lamiera si accede a un prato incolto, lo si attraversa e si arriva all’edificio: nessuna traccia dei rom, non uno, non una voce.

Si costeggia il palazzo, cioè il suo scheletro, tra sporcizia e masserizie e si comincia a scendere per uno scivolo, fino ad infilarsi sotto il palazzo dove nella semioscurità vivono 7 o 8 famiglie rom. Sottoterra e con la pochissima luce che filtra, con le correnti fredde, molto fredde create da spazi pieni e vuoti.

Ci abituiamo alla poca luce (siamo in quattro, tre maestre e una signora volontaria) e cominciamo a veder tende a igloo, bambini, persone: fantasmi, ombre spaventate che non escono nel prato dove il sole rende la temperatura meno rigida per non essere visti. Il popolo del sottoterra milanese.

Tutti ci parlano del freddo, ma ancora di più dello sgombero annunciato per domani. Nessuno si lamenta, nessuno ci chiede alcunchè. Mentre siamo lì una signora rom pulisce i fornelli (l’acqua la prendono alla fontanella della piazza vicina), cambia i fogli di giornale che fanno da tovaglia, scalda una pentola d’acqua e lava le stoviglie. Un’altra scopa il pavimento di cemento: lo spazio in cui stanno è pulito, nelle tende regna l’ordine, ma è un posto da topi, siamo sottoterra al freddo e all’umido puzzolente.

Cristina, nostra scolara di 10 anni, ci chiede un libro per studiare: lei a scuola ci andava, ma i continui sgomberi hanno reso impossibile la frequenza. Ci chiede quando potrà tornare. Per tutto il tempo che stiamo lì non uscirà mai dalle braccia della sua maestra.

Romeo, 6 anni, quando vede la sua maestra si ferma immobile e resta così per un po’, ma intanto la faccina gli si trasforma e diventa un unico grande sorriso, sembra che gli scoppi la luce dentro. Poi le corre incontro e le salta in braccio.

Verso di noi solo rispetto, tanto rispetto e grande educazione, verso i bambini coccole e tenerezza. Noi ce li coccoliamo i nostri scolari e anche i loro fratellini.

Mi chiedo in quale altra parte del mondo le persone sono costrette a vivere così e con la paura di essere scacciati anche dai sotterranei: forse nelle fogne di Bucarest? Forse nell’Africa più ingiusta? Forse nelle favelas del Brasile?

Ci è difficile venire via da lì, e quando usciamo non commentiamo. Una donna rom ci augura “buon 8 marzo”.

Una maestra

7 marzo 2010 – uno dei tanti giorni di inciviltà di Milano

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