giovedì 30 aprile 2009

La predica nuda


















La signora C. riposa meritatamente sul divano. La TV trasmette la sua soap preferita.
È un appuntamento quotidiano, come il caffè macchiato al mattino.

Suonano lungo al citofono.
La signora C. si alza a rispondere, mentre tutti gli altri citofoni del condominio suonano insieme.
“Aiuto, ho fame. Aiuto, ho fame!”.
A tal segno di disperazione siamo? Che la gente venga a gridarci aiuto al citofono di casa?

La signora C. è turbata, non osa proferire parola.
Si sposta alla finestra che dà sulla strada.

“Chi è?” – chiede il signor C. dall'altra stanza.
“Un marocchino con un sacco sulle spalle… Che cosa dovevo fare, farlo salire?".
"Ce ne sono dappertutto” - commenta il signor C.

Naturalmente il “marocchino” forse era egiziano o somalo o senegalese, chissà.
Se n’è andato.
Il mondo va così.
I signori C. tornano alle loro occupazioni.

Brava gente, i signori C.
Buoni cattolici, per nulla bigotti benché praticanti.

I signori C. conoscono bene quella parola che racconta: “Avevo fame, avevo sete, ero forestiero…”.
Sovente la ascoltano e la meditano.

La ascoltano e la meditano ma non la desiderano.
È una parola scomoda.
Richiede che si spenga la diffidenza, che si lasci andare la paura, che si chiuda il libro delle personali preoccupazioni per vedere quelle degli altri.

“Ogni volta che avete fatto queste cose…”.
È una parola innocua fra le panche di una chiesa.
Via da lì diventa fastidiosa.
Fuori di lì divide: padre contro figlio, figlia contro madre…
Pietra di scandalo, capace di svelare i pensieri di molti cuori.

Benedetta parola inopportuna.

Quello sconosciuto al citofono osava predicarla da un pulpito faticoso, quello della sua stessa vita di girovago mendicante e i signori C. non lo hanno fatto entrare.
C’è forse di che biasimarli?
Quella parola la distinguono solitamente infiorata di arzigogoli teologici, tra gli incensi balsamici di una sacra liturgia festiva.
Così spoglia proprio non la riconoscono: tutta la sua predicazione condensata in un grido.
Una nudità sconcertante, da turarsi le orecchie come in una tela di Munch.

Una predica di carne, una orazione assoluta.
Nessuna dolcezza, nessuna bellezza da attrarre i loro occhi.

La signora C. ora sta pensando che anche quell’uomo è figlio: ha una madre o certo l’ha avuta.

Poter ascoltare allora il suo grido con le orecchie di quella madre.
Poter guardare il suo povero sacco sulle spalle con gli occhi di lei.

In tal caso – la signora C. lo sa bene – la porta si aprirebbe.

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