venerdì 8 agosto 2008

Papà, hanno sete le nuvole?
















Da qualche giorno non mi abbandona il pensiero di quel padre che ha dovuto lasciare al Mediterraneo, uno dietro l’altro, i corpi dei propri due figlioletti morti durante la traversata verso l’Italia. Pare che il più piccolo, di appena due anni, sia deceduto poche ore dopo l’imbarco; la più grande, di quattro, il giorno addietro, entrambi per disidratazione.
Che cos’è un bambino povero di due anni in preda al mal di mare, su un canotto sovraccarico, sospeso fra il silenzio del cielo e il blu profondo delle acque? Che cosa significa precisamente quel bambino per il resto del mondo? E che mondo è mai questo in cui un bambino è costretto a mettersi per mare su una imbarcazione di fortuna, sta male e muore di lì a poco tra le braccia di un povero padre? Questa domanda mi gira in testa e non so mandarla via.
Che ci fa in mezzo al mare un bambino povero che vomita? Un bambino malato deve starsene a casa, accucciato nel lettone fra mamma e papà, in posizione fetale, la testa ben ferma sul cuscino, gli occhi chiusi, una carezza a sfiorargli i capelli sudati. Che se ne fa un bambino che vomita di questa trottola liquida dalla quale vorrebbe scendere, che non la smette per un attimo di agitarsi? E dell’odore acre del gasolio bruciato da un motore troppo gracile per tutta quella strada e per tutta quella gente? Un bambino che vomita avrebbe bisogno di reintegrare presto i liquidi e i sali perduti, ma a bordo l’acqua scarseggia e a nessuno è concesso di attaccarsi alla bottiglia, nemmeno a un bambino. Il papà ha offerto la propria, ma non basta.

Ora passa – sussurra papà. Figlio, ora ti passa. È il pedaggio per una vita migliore, il costo del non voler indugiare oltre nella penuria di cose. Ecco che cos’è la nausea che ti affligge: è il segno che stiamo andando, che stiamo andando per davvero, dove c’è pane a sufficienza e medicine quando servono. E acqua pulita quanta ne vuoi, che per averla basta guardarla scendere da un rubinetto. Ricordi quante volte lo abbiamo sognato al ritorno dal fiume? Con “mam-ma” e “pa-pà”, sono state le prime parole che vi abbiamo visto fiorire sulle labbra, a te e tua sorella: “pa-ne”, “ac-qua”… Come dici? Acqua, acqua… sì, certo. Bevine un sorso piccolo piccolo… Così, bravo! Sei bravo, sei forte, figlio mio.
Mettiti giù che ora passa. Chiudi gli occhi e respira, respira a fondo. Ancora, da bravo… Sei bravo, sei forte, figlio mio.
Lo vedi? Ci sono due nuvolette bianche che veleggiano sulla nostra testa. Forse ci indicano la strada. Persino loro se ne vanno a nord dove siamo diretti anche noi. Hanno lasciato a malincuore il bastone e la ruota e gli altri giochi di terra, preparato cose leggere per il viaggio e salutato le loro amichette sul far della sera: Domani ce ne andiamo. E dove ve ne andate? Andiamo al nord, dove il sole non rischia di dissolverci prima che sia mezzogiorno: che nuvola è mai quella che non può sperare di vestirsi di rosa in un bel tramonto?
Così conversavano le nuvole. Dico sul serio, anche le nuvole possono parlare e giocare fra loro e ridere. Papà, hanno sete le nuvole? Certo, anche le nuvole hanno sete e qualche volta piangono pure, come abbiamo fatto noi lasciando la nostra casa. Ricordi l’ultima volta che abbiamo visto una nuvola piangere? Ricordi i goccioloni inattesi come un regalo nel cortile rosso di terra? E il nonno a dire: È il cielo che piange perché ve ne andate. È il cielo che piange con chi resta.
Non so dove andiamo figlio, non so per quanto ancora. Non so nulla, in verità. Soltanto so che mi spaventa questo serpente che ti ha preso le viscere e ti stringe ogni volta alla vita, facendoti sporgere verso l’abisso. Uno due, tre colpi, poi torna a placarsi, lasciandoti stordito fra le mie braccia inermi, spremuto come un limone acerbo da cui non si tira più nulla… E tutta quest’acqua qui attorno, che non si può bere.

E io non lo so scrivere oltre il dolore enorme di un padre che cala in acqua il corpo esanime del proprio figlio, dei propri figli. Quanto fa un dolore enorme moltiplicato per due? Cerco aggettivi ma non ne trovo. È un dolore senza aggettivi, un dolore che non si può dire.
Vorrei chiedere perdono a quei piccoli e abbracciare quel padre. E dirgli che non lui ma la vita intesa come corsa all’accaparramento dei beni, come ricerca esclusiva del proprio personale successo, come esclusione dei più deboli; una cultura sedicente cristiana nella quale però parole come eguaglianza, giustizia, condivisione sembrano non aver senso alcuno: tutto questo e molto altro ha buttato a mare i suoi bambini ben prima che il Mediterraneo pietosamente li accogliesse come un grembo materno, in una sorta di sacra deposizione.
Me ne resto con questa domanda di senso che mi accompagna e che non provo più a cacciare. Un modo per fare memoria, se ciò può valere qualcosa.

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