martedì 29 aprile 2008

Presso i tuoi altari




Anche il passero trova la casa,
la rondine il nido,
dove porre i suoi piccoli,
presso i tuoi altari,
Signore degli eserciti, mio re e mio Dio.
Salmo 83


La mattina del 26 aprile scorso, la polizia ha sgomberato la chiesa del Carmine a Napoli, divenuta da qualche giorno il tetto per un centinaio di famiglie di sfrattati della città.
I poveri escono dalla casa di Dio, che è casa loro. Ancora prima d’essere luogo di culto ogni chiesa è “casa dei poveri” perché padrone di casa è Il Povero per eccellenza.

La chiesa, ogni chiesa, non è del parroco, né della curia, né delle Belle Arti… la chiesa è dei poveri. È nostra, nella misura in cui ci riconosciamo poveri fra i poveri.
I poveri sono sempre ingombranti. Molto facile parlarne, costruire sulla loro vicenda castelli di parole che stanno in piedi il tempo di un predicozzo domenicale. Più difficile ascoltarli, dare loro voce. Ancor più duro accoglierli fra le mura domestiche, riconoscendo la comune umanità che a loro ci lega e la dignità di figli di Dio che ce li affratella.

“Neanche il cardinale è venuto!” grida una donna esasperata all’uscita della chiesa.
A fronte di quel grido potremo continuare a far finta di niente. Ma se è più comprensibile – almeno per me – che un “principe della chiesa” non sia accorso a porre un gesto di solidarietà verso questa gente, grave è che nemmeno il vescovo sia venuto. I principi, a qualunque casato appartengano, da che mondo è mondo si occupano delle loro cose. Il vescovo no, deve occuparsi delle cose altrui, delle fatiche, dei dolori della sua gente.

Il grido di vergogna è per tutti. Per tutti quelli che hanno visto nello sgombero del Carmine un atto di liberazione, di resa dignità ad un luogo di culto. Il grido di vergogna è per un popolo che onora Dio con le labbra, guardandosi bene però dal far entrare in gioco il proprio cuore (Mc 7,6-8).
E se non è pensabile che una chiesa, semplicemente per questioni di praticità, divenga sistemazione definitiva per famiglie con bambini (molti bambini), i quali hanno assolutamente diritto a una vera casa, è tuttavia tristissimo questo esodo forzato di gente dalla casa di Dio.

Avremmo voluto vedere una tonaca nera mischiata a questo gruppo variopinto che esce dal portone centrale, avremmo voluto scorgervi l’incedere di un pastorale. Invece soltanto povere masserizie raccolte in sacchi per la spazzatura. E madri all’esasperazione, i bimbi piccoli per mano.

Siamo fatti così: ci estasiamo nella notte di Natale alla lettura di pagine che consideriamo sacre; intristiamo laddove si racconta che per la famiglia di Nazaret non c’era posto nelle case e negli alberghi di Betlemme. E qui, di fronte a questa folla buttata per la strada, che passa in un mattino d’aprile dal riparo di un altare all’esposizione sulla pubblica via, dovremmo forse tacere, accondiscendendo in silenzio, trovando mille pie giustificazioni a questo atto semplicemente ingiusto? No. Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada (Isaia,62,1).

Guardando il filmano dello sgombero mi tornavano alla mente, quasi calamitate, le parole indelebili del profeta. Parole di fuoco che bruciano più che scaldare. Se possibile, più ancora del grido delle donne di Napoli, sono essere a farmi arrossire.


È forse come questo il digiuno che bramo,
il giorno in cui l'uomo si mortifica?
Piegare come un giunco il proprio capo,
usare sacco e cenere per letto,
forse questo vorresti chiamare digiuno
e giorno gradito al Signore?

Non è piuttosto questo il digiuno che voglio:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?

Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato,
nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?

Allora la tua luce sorgerà come l'aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.

(Isaia 58,5-8).

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