venerdì 28 dicembre 2007

Verso Betlemme in silenzio

Pubblico una bella riflessione natalizia che mi è stata passata da amici, sperando che possiate gustarla anche voi. Mi sembrano parole di vangelo ancora capaci di rendersi commestibili e recare benessere spirituale.
Colgo questa occasione per augurare a tutti i frequentatori di Musiké un felice Natale.
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Verso Betlemme in silenzio

Ogni anno, quando viene Natale, capisco di non essere capace di arrivare da solo là dove Gesù mi aspetta. Ce l’ho messa tutta, ho provato a prepararmi con giudizio, ho fatto i miei buoni propositi. E come sempre sono inciampato nei miei errori e nelle mie lentezze, mi sono lasciato prendere dall’affanno e dall’ansia, ed ho finito col perdere la strada. È sceso il buio, è venuta la notte, ed io mi sono smarrito. Chissà dov’è Betlemme – mi domando – chissà se il Bambino vorrà attendermi ancora.

Per fortuna il Signore mi aspetta. E siccome gli dispiace vedermi così lontano, ogni anno mi manda una guida, qualcuno capace di accompagnarmi al presepe. A volte è un angelo che canta, altre volte un pastore, oppure l’asino e il bue, la cometa che brilla, perfino Erode il cattivo, o i Magi partiti da lontano. Quest’anno il Bambino mi ha fatto incontrare Giuseppe, il falegname di Nazaret, lo sposo di Maria.

Ce lo dipingono spesso come un vecchio. Ha la barba grigia, nelle immagini, l’aspetto sconfitto, rassegnato, come uno a cui hanno portato via un sogno, e può solo tirare avanti in qualche modo, con una moglie troppo giovane e un bambino non suo. Ma Giuseppe non è così. Anche se non apre bocca, anche se in tutta la Scrittura non troviamo di lui nemmeno una parola.

Cosa c’è dietro il silenzio di quest’uomo giusto – mi sono chiesto – quale segreto nasconde? E provando a rispondere a questa domanda ho ritrovato la strada verso Betlemme.

Giuseppe tace perché è stanco. In tutta la narrazione del vangelo di Luca è soggetto di un verbo soltanto: “salì”. È un uomo che sa bene cosa significhi fare fatica, viaggiare sempre in salita, arrivare alla sera senza energie addosso, sfinito dal peso del lavoro, preoccupato per Maria e il Bambino, con il cuore pesante e turbato per un futuro che non appare chiaro, con troppe domande che da tempo aspettano risposte, e non ne trovano mai.
Capita di giungere così al termine di qualche giornata: senza più parole da spendere, troppo stanchi – o a volte troppo tristi – per riuscire a dire qualcosa di buono, per regalare una parola di conforto e di dolcezza, una frase di affetto o di perdono. Allora si tace, e si affida al silenzio, a qualche gesto muto e discreto tutto il povero bene che vorremmo ancora riuscire a donare. Si consegna nelle mani dell’altro la propria stanchezza come fosse un tesoro prezioso. Si resta muti, e si attende il riposo della notte.

Giuseppe tace perché ha rinunciato a dire parole cattive. Eppure ha tutto il mondo contro: i cittadini di Nazaret che non comprendono la sua scelta di stare vicino a Maria, l’imperatore che lo costringe a un viaggio inutile e massacrante per farsi censire, gli albergatori di Betlemme che gli sbattono la porta in faccia e lo lasciano per strada, al buio, con il Bambino che scalcia nel ventre della Madre perché è giunto il momento, e non può più aspettare. Forse per un istante gli è sembrato di avere contro anche Dio, che ha mescolato e buttato per aria le carte del gioco della vita e l’ha chiamato là dove lui non pensava e non voleva senza chiedergli nemmeno un parere, senza spiegargli perchè. E Giuseppe tace. Non è più capace di parole cattive né contro Dio né contro gli uomini. Ha imparato a dominare la rabbia e l’impazienza, a guardare il mondo e le cose senza prestare ascolto soltanto al proprio dolore, alla propria ferita.
Rifletto sui miei poveri giorni, e li ritrovo spesso consumati dall’ira, dal nervosismo con cui corro incontro alla vita pensando di dominarla e finendone spesso schiacciato. Penso a quanto le incomprensioni e i litigi siano capaci di rovinarmi l’esistenza, di renderla triste e infeconda, gonfia di un livore sordo e impotente che mi incatena e mi toglie la gioia. Giuseppe mi porta al presepe nel silenzio e nella pazienza, provando a pronunciare con labbra mute una sommessa benedizione, una parola di bene.

Infine Giuseppe tace perché è commosso. Sta in silenzio davanti al Bambino che è nato e sorride. E forse mentre sorride gli viene da piangere, come si piange davanti al miracolo, al prodigio di una vita che in un istante spazza via anni di incomprensioni e di dolore, secoli di cattiveria e di male. Si può piangere e sorridere insieme, travolti da una gioia di cui afferriamo solamente una scintilla, come fosse un granello di polvere caduto dalla cometa. Una briciola soltanto, ma ci basta per andare avanti, perché conserva tutto quanto cerchiamo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

Anch’io sono arrivato al presepe, e Giuseppe, come è solito fare, si mette da parte, e mi lascia guardare il Bambino. Vorrei dirgli qualcosa, ma mi trattengo. Per questa notte è bene soltanto scoprirsi commossi, e nella meraviglia della Nascita imparare a tacere.


Dio viene nel cambiamento

Nei giorni che precedono il Natale anch’io come tanti preti giro per le case. È un cammino pieno di incontri e di fatica. Quest’anno è stato bello condividere questo viaggio con tanti amici, uomini e donne che ci hanno aiutato ad arrivare a tutti. Passi per le case, entri nei portoni e nei cortili. Alcuni sono luoghi che conosci bene, altri sono case nuove, tutte da scoprire. Ogni volta sembra che si debba aggiornare un registro: ritrovi persone che si ricordano di te; io stesso mi sorprendo, perché basta un particolare e dalla memoria rifioriscono ricordi, ritornano dialoghi interrotti. Si gusta la gioia di essere ancora qui, il miracolo di potersi ritrovare. La vita è così fragile, e delle volte basterebbe ritrovare anzitutto la sorpresa di esistere, semplicemente di essere ancora vivi, di potersi ancora incontrare. A volte la novità si fa palpabile: una nuova vita sgambetta tra le mura di casa. Allora i pensieri si rivolgono al futuro, perché un bambino è una speranza che va incontro al tempo senza paura; magari è una vita tanto attesa, oppure è l’irruzione inaspettata che dapprima sgomenta e poi riempie di gioia. La vita che arriva è così, ti sorprende sempre, ti sconvolge e ti riempie di sé. Ma ci sono anche incontri che lasciano nel cuore silenzio e dolore, perché ti accorgi che manca qualcuno, che non ci sono più persone che prima riempivano di sé la vita di altri. Alcuni sono partiti perché cambiano casa, perché cercano un luogo migliore, un’abitazione più grande. Altri perché qualcosa si è rotto, un legame è entrato in crisi, una famiglia si è spezzata. Altri ancora li porta via la morte ed è sempre un dolore vedere un posto lasciato vuoto, sentire quanto manchi alle persone care. La vita è un continuo cambiamento, un viaggio che non finisce mai.
Non riesco ovviamente a tenere i conti, non sono molto preciso nel ricordare i nomi di tutti, nell’aggiungere i nati e togliere i defunti. Mi lascio portare da ogni incontro, recensisco con il cuore ritrovamenti e perdite che rendono la vita più tenera e vera.

Penso che qualcosa di simile, a Natale, capiti anche in tutte le case. Ci si ritrova, si fanno in qualche modo i conti con le nostre relazioni più vicine, che spesso sono anche le più complicate. Ogni Natale è diverso e uguale. Le relazioni soffrono delle loro piccole variazioni: qualcuno non c’è più, qualcuno l’ho perduto per strada, sono mesi che non lo sento e cercarlo adesso per gli auguri mi fa sentire un po’ in colpa. Qualcuno non c’era lo scorso anno nella lista delle persone da contattare: nuovi arrivi, nuovi amici, nuovi incontri. Fare i conti con le nostre relazioni non è mai un bilancio facile. Ogni volta che qualcuno si perde o si dimentica sentiamo tutta la nostra debolezza, pensiamo alle parole che ci sono mancate, a quelle sbagliate. E quando invece qualcuno di nuovo appare nella trama delle nostre relazioni ci sentiamo più vivi, ma anche più responsabili. Nella nostra vita e nelle nostre case entrano ed escono persone, e ogni passaggio lascia qualcosa: sei più ricco e insieme più povero.

Gli uomini non smettono di fare i loro censimenti, di contare e di contarsi, anche semplicemente per fare una lista di invitati ad una festa, oppure per vedere chi, come questa notte, è in chiesa a pregare e magari non c’era lo scorso anno. Il rischio di ogni censimento – ce lo insegna bene la Bibbia – è che esprima un desiderio di controllo e di potenza. Oggi forse i potenti del mondo non si metterebbero a fare i censimenti come ai tempi di Gesù: farebbero semplicemente un sondaggio, calcolerebbero l’audience: sono le forme moderne con cui il potere fa i suoi censimenti. Viviamo un tempo nel quale contare e contarsi sembra essere un modo per apparire, per esserci. Oppure un modo per controllare gli eventi, per avere ogni relazione e ogni persona sotto il nostro controllo, e per questo sentirci più forti e sicuri: anche quest’anno non è successo nulla, ci siamo ancora tutti, siamo sempre di più, più forti e più potenti!

Ovviamente non è così e siamo in balia di una vita che non controlliamo, che ci porta dove a volte non vorremmo. Una vita che cambia anche quando non ce ne accorgiamo, e non sappiamo mai se in meglio o in peggio. Cambia, semplicemente perché la vita non può restare ferma, perché le persone vanno e vengono, a volte sembra come le nuvole che non puoi fermarle ma solo guardarle e indovinare il tempo che portano con sé.

Mi commuove pensare che Gesù sia nato durante un censimento. Che Lui, il Signore della storia, sia stato iscritto in un libro contabile, magari come un numero tra tanti. Che sia entrato in scena durante un viaggio difficile, travolto anche lui dai cambiamenti. Dio viene nei nostri cambiamenti, abita la nostra storia, e lo fa con delicatezza e discrezione. Iscritto in un registro sembra passare inosservato come uno dei tanti. Proprio così entra nei nostri cambiamenti, diventa parte di una storia fatta di presenze e assenze, diventa “uno” di noi, uno dei tanti. Eppure ognuno è unico, come unico è il Signore, e ogni cambiamento porta con sé promesse e paure che dobbiamo imparare a vivere, nelle quali il Signore si fa presente.

Se dobbiamo fuggire la tentazione di fare troppi censimenti per contarci, non dobbiamo avere paura di guardare in profondità i cambiamenti della vita, di accorgerci di chi arriva inatteso e di non dimenticare chi sembra sparire e lasciarci. I cambiamenti che ci portano stupore e turbamento hanno forse in serbo un dono, un bene segreto che andrebbe semplicemente accolto e custodito. In questi passaggi il Signore stesso si fa presente, e la vita non smette di sorprenderci, come il dono inatteso di una salvezza che si iscrive, dimenticata a discreta, nei registri consunti della nostra storia.


Custos: “Quid de nocte?”
Sentinella: “A che punto siamo della notte?”

L’immagine della sentinella, della guardia che veglia nella notte, è spesso usata dai profeti dell’Antico Testamento. La sentinella veglia, non dorme, non si distrae ma guarda l’orizzonte in cerca di un segno, di un qualsiasi segnale che possa mettere in pericolo tutta la città. La sentinella sta in alto e custodisce tutti gli uomini, le donne e i bambini che nella notte riposano per poter ricominciare un nuovo giorno.

La sentinella spesso è sola, perché all’alba, quando tutti si svegliano e ricomincia la vita, lei si ritira nel silenzio e nel riposo, felice perchè con il suo vegliare nascosto e silenzioso ha custodito tutti gli uomini durante la notte. E durante il giorno pochi si ricordano di quest’uomo che li ha protetti e li ha preservati da ogni male.

Ma i profeti raccontano anche di sentinelle pronte a svegliare tutta la città non perchè il pericolo è vicino ma perché sta arrivando un messaggero di bene, di pace, un annuncio di salvezza. Sentinelle pronte a riconoscere soprattutto i segni della bellezza, della speranza, dell’amore e non solo del pericolo. Sentinelle che interrompono il sonno della città per condividere con tutti questo messaggio.

Gli uomini della città sono spesso indaffarati durante il giorno, di corsa per le loro attività, affannati dalle difficoltà della vita, rinchiusi in casa e nel cuore dalle loro paure; non attendono nulla se non il segnale che il pericolo sta arrivando, che è alle porte, che bisogna correre ai ripari e nascondersi.

Tanti uomini di oggi sono così. Pronti ad annunciarci quello che non va, il pericolo che minaccia la nostra vita. E noi non vogliamo che nessuno ci svegli e ci interrompa se non per annunciare l’arrivo del nemico che ci vuole togliere anche le poche e fragili sicurezze che con fatica abbiamo conquistato nella vita.

Eppure il Natale ha bisogno soprattutto di messaggeri di bene. Di uomini capaci di vedere nel buio della notte, di leggere i segni, a volte piccoli, che dicono la speranza del vivere, la gioia del condividere, la grazia di Dio. Uomini che non hanno paura di svegliarci, anche nel pieno della notte, per dirci che Dio ci ama ancora. Che gridano di gioia e di entusiasmo perché con i loro occhi sono capaci di vedere il Signore. Queste persone sono spesso i poveri, gli ammalati, gente provata dalla vita ma radicata nella fede, capace di uno sguardo di pace, di bene, di dire parole buone e vere che arrivano al cuore con calore e dolcezza. Uomini e donne che ci ricordano che il caos della vita e le sue preoccupazioni non possono occupare tutto lo spazio del nostro cuore.

È un lavoro difficile quello della sentinella di bene. Corre sempre il rischio di vedere il suo messaggio di salvezza non preso in considerazione, ritenuto di poco conto, perché non annuncia una minaccia o un castigo. Perché in fondo il Natale non sconvolge la nostra vita, le nostre attività, non ci mette in pericolo.

Il Natale è proprio così. Dio non viene a toglierci nulla. Non viene a portare via quelle poche certezze che abbiamo. Al contrario: viene nel mondo chiedendo di occupare lo spazio vuoto che abbiamo nel nostro cuore. Tutto questo è gratuito, è semplice e se ci pensiamo bene anche un po’ ingenuo da parte di Dio.

È un lavoro bello quello della sentinella. Bello quando trova uomini e donne che davanti al suo messaggio ritrovano un sorriso perduto, un volto sereno, un gesto di tenerezza e confidenza. Ma ancora più bello quando gli abitanti della sua città ritrovano un motivo per continuare a vivere e amare, spesso correndo nell’affanno, proprio nella fragilità e nella tenerezza di quel Bambino Gesù, nato a Betlemme, in una notte di lavoro e veglia.

Comunità pastorale Santa Maria Beltrade e San Gabriele - Milano.




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